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Patrizia MelloWritten by: Interviste

Giovanna Borasi: così il CCA interpreta il futuro dell’architettura

Giovanna Borasi: così il CCA interpreta il futuro dell’architettura

La direttrice del Canadian Center for Architecture di Montréal ci racconta il nuovo programma di film, mostre e inchieste

 

MONTRÉAL (CANADA). Tra i principali temi trattati, un’inchiesta sulla crisi climatica (“Groundwork”) che ha per protagonisti nuovi approcci all’ambiente da parte di architetti come Xu Tiantian, Carla Juaçaba e lo studio berlinese bplus.xyz (b+); un’inchiesta sulla sovranità delle comunità indigene e sui diritti civili; un’indagine sul rapporto tra fotografia e architettura dove emerge in particolare “Madskills”, mostra dedicata a svelare le “folli abilità” degli operai edili utilizzando la fotocamera per sovvertire le dinamiche tradizionali di sorveglianza; un’indagine sull’eredità della modernità con riferimento al lavoro dell’argentino Amancio Williams (1913-89). Proseguirà, invece, fino al 2026 la collaborazione del CCA con l’architetta senegalese Nzinga Mboup. Il CCA ha sempre cercato di porre l’attenzione su questioni meno scontate del campo progettuale con l’obiettivo di “far pensare le persone”. Uno sguardo trasversale finalizzato a scoprire alcune criticità, trovando nuove relazioni tra gli attori coinvolti, o situazioni ai margini del dibattito ufficiale sull’architettura, andando oltre le quinte del progetto stesso per aprire varchi di nuova comprensione con il pubblico. Di questi temi, legati al programma culturale inaugurato a fine maggio, parliamo con la direttrice Giovanna Borasi, dal gennaio 2020 succeduta a Mirko Zardini nella guida della prestigiosa istituzione canadese.

 

 

Qual è stata per lei l’esperienza all’interno del CCA più significativa dal punto di vista dei risultati ottenuti?

La ringrazio per la comprensione di quello che facciamo, difatti a volte ci chiedono perché non parliamo di edifici o architetti famosi. Il CCA è stato fondato con l’idea di capire come l’architettura (che non è semplicemente un edificio costruito) possa assumere una dimensione d’interesse pubblico, coinvolgendo i cittadini, chi prende le decisioni, ecc. Il CCA nasce come istituzione votata a porre domande su come l’architettura possa contribuire a riflettere in maniera diversa sui temi legati al progetto, ed è questo il motivo per cui la nostra programmazione è tematica, indirizzata all’individuazione di questioni emergenti, dalle pressioni sociali a quelle economiche, ai problemi della diversità, incrociando questi temi con l’architettura. E ci assumiamo il rischio di lavorare su questioni i cui risultati si vedranno anche due anni più tardi con la produzione di un libro o di un film, dovendo restare sempre attuali. Quindi puntiamo sempre ad anticipare i tempi, teorizzando su questioni latenti ma non ancora esplicite.

Rispondendo alla sua domanda, farei riferimento alla questione ambientale quando nel 2006 abbiamo invitato Gilles Clément e Philippe Rahm come rappresentanti di posizioni molto diverse sul tema. Da una parte l’idea di Clément che la natura faccia il suo corso e sia essa a dirci come dovremo agire; dall’altra quella di Rahm, votata ad un super controllo della natura. Credo che uno dei risultati importanti sia la longue durée delle questioni poste all’interno del CCA, poiché molti temi trattati continuano a riemergere nel tempo. Non abbiamo mai fatto mostre generiche sull’ecologia o sulla sostenibilità, ma abbiamo lavorato ai margini della questione per poter trovare elementi di riferimento ad essa su cui ragionare. Per esempio, l’ultimo progetto che abbiamo di Xu Tiantian riguarda il ruolo dell’architetto di fronte all’attuale crisi ecologica lavorando con la comunità, con le persone che conoscono il territorio, lavorando sulle regole che da millenni rispecchiano la politica del taking care di questo territorio. Quindi, l’altro aspetto importante nel CCA è l’effetto domino, poiché si fa un progetto e poi lo stesso ne influenza un altro, quasi una ricerca che evolve in formati diversi ma che continua ad essere presente. 

 

Quale, invece, il principale spostamento di traiettoria a partire dalla sua direzione?

C’è continuità di approccio a livello metodologico con la direzione di Zardini, però ci sono anche molte cose nuove. La mia direzione è avvenuta in concomitanza con eventi tragici come la pandemia, l’assassinio di George Floyd e in Canada l’emersione, ad aprile 2020, di una storia allucinante (durata fino agli anni ’90) di bambini provenienti dalle popolazioni indigene che venivano strappati alle proprie famiglie, alla propria cultura e trapiantati forzatamente in scuole cattoliche, finendo poi o per suicidarsi o per essere adottati, mentre alcune bambine sono rimaste incinte, e sono stati rinvenuti i cimiteri… In questo senso si è reso necessario ripensare al ruolo di un’istituzione, alla possibilità d’incidere sulla vita pubblica, d’inglobare chi non fa parte delle istituzioni ma che può avere uno spazio al loro interno, di comprendere quale dialogo instaurare con la comunità. In definitiva si è trattato di una serie di scelte che ho fatto in relazione ad un contesto che era cambiato; lo si può considerare un passaggio attraverso una crisi ma anche un momento di trasformazione importante per il CCA. Abbiamo lavorato molto con la comunità indigena e continuiamo a farlo e ho deciso che i film sarebbero diventati un medium importante per il CCA, prima di tutto perché sarebbe stato un modo per essere presenti nei luoghi; quindi perché, così facendo, il senso stesso dell’istituzione cambia a favore di una dimensione di “presa diretta”. Ad esempio, abbiamo fatto delle ricerche sull’housing: per quella sugli homeless siamo andati direttamente a parlare con coloro che vivono in strada da anni… Il CCA ha sempre avuto una dimensione internazionale, ma nel chiedersi come poter essere tali, l’idea di attivare delle conversazioni con altre culture e altri luoghi è diventato uno dei nostri programmi più importanti. Poi c’è il lavoro che stiamo facendo in Africa… 

 

Possiamo quindi dire che il CCA rivesta una missione politica?

Direi di sì, c’è una dimensione socio-politica molto forte. Sin dall’inizio la scelta è stata sempre su architetti che sono interessati effettivamente ad una dimensione socio-politica dell’architettura.

 

Guardando al programma in corso, si nota una forte presenza femminile. Nuovi approcci al progetto, nuove teorie spesso oggi provengono proprio da architette. Penso anche a nomi piuttosto noti come la stessa Xu Tiantian o Jeanne Gang, Dorte Mandrup, Lina Ghotmeh… C’è una relazione con la complessità di problematiche che oggi riguardano il senso del progetto o si tratta di pura casualità?

Non è casuale perché in questo momento quando organizziamo qualcosa ci poniamo il problema di come sia possibile avere punti di vista diversi, e questi ultimi provengono dalla diversità culturale. Certamente, non facciamo un programma sulle donne architetto ma, lavorando all’interno dei vari temi, vediamo se ci siano delle donne da coinvolgere e poi effettivamente si scopre un po’ quello che lei stava dicendo, ossia che l’approccio di queste architette è molto in linea con quello che noi riteniamo sia il giusto atteggiamento rispetto alle tematiche ambientali in questo momento. 

Ho letto recentemente un’intervista a Gae Aulenti (1927-2012) in cui veniva ribadito che lei fosse un architetto donna e a tale proposito Aulenti s’innervosiva dicendo una cosa molto bella, ossia che ciò che differenzia l’approccio femminile dal maschile è che una donna è interessata al sapere e non al potere. Da quando l’ho sentita è diventata una voce latente dentro di me che ho modo di verificare spesso quando incontro architette davvero interessate a sedersi, a capire il contesto, a parlare con le persone, ad assorbire tutto questo per poi fare il loro progetto ma non con lo scopo di diventare la più famosa. In tal senso, in linea con la filosofia del CCA, stiamo facendo sì che tutto questo sia sempre più presente. E l’ho verificato lavorando con la comunità indigena. Abbiamo organizzato una mostra in cui le curatrici erano praticamente quasi tutte donne, una società matriarcale, e lì comprendi la questione del “prendersi cura”, della trasmissione di conoscenze tra generazioni: tutte cose che conosciamo ma che cominciano a diventare evidenti perché escono dalla dimensione familiare, un approccio che ora diviene professionalizzato.

 

La Biennale Architettura 2025, curata da Carlo Ratti, s’intitolerà “Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva”. Cosa pensa a proposito di queste declinazioni dell’intelligenza? Quale ritiene sia prevalente per il futuro dell’ambiente costruito?

Si tratta di un progetto molto ambizioso e sono sicura che Ratti riuscirà a trovare il modo di realizzarlo; è vero che in questo momento passiamo da un tipo d’intelligenza all’altra come se fossero diverse. Quello che auspico per la mostra è che si riesca a capire come in realtà queste intelligenze siano legate o dipendenti l’una dall’altra. Il legame tra intelligenza naturale e collettiva mi sembra molto evidente, così come tra quella collettiva e quella artificiale. In tutto ciò mi auguro che in futuro il naturale e il collettivo siano predominanti, perché si è visto che con la dimensione artificiale finiremo per costruire ulteriore complessità, che poi dovrà essere gestita da un’altra generazione. Se forse ci basassimo maggiormente su una dimensione collettiva e naturale, si tratterebbe di processi magari più lenti ma che potremmo in qualche modo essere in grado di gestire per diverse generazioni.

 

Chi è Giovanna Borasi

Architetta, redattrice e curatrice, è entrata a far parte del Canadian Centre for Architecture (CCA) nel 2005 come Direttore associato dei programmi e ha ricoperto incarichi successivi come Curatrice di architettura contemporanea (2011-13) e Curatrice capo (2014-20) prima di diventare Direttrice e Capo curatrice nel 2020. Ha studiato architettura al Politecnico di Milano (1996), ha lavorato come redattrice di «Lotus International» (1998-2005) e «Lotus Navigator» (2000-04), ed è stata vicedirettore capo di «Abitare» (2011-13). Tra i recenti progetti più importanti di Borasi come curatrice figurano la mostra e il libro del CCA A Section of Now: Social Norms and Rituals as Sites for Architectural Intervention (2021) e una serie di docufilm in tre parti, What It Takes to Make a Home (2019), When We Live Alone (2021) e Where We Grow Older (2023), che osservano da vicino la resa dei conti tra l’architettura contemporanea e i principali cambiamenti demografici. Contribuisce regolarmente a pubblicazioni internazionali di architettura, workshop, corsi universitari, comitati e simposi.

Immagine copertina: Giovanna Borasi

Autore

  • Patrizia Mello

    Si interessa di teoria, storia e critica del progetto contemporaneo, argomenti su cui svolge attività didattica e ricerca, pubblicando numerosi articoli e saggi, e organizzando convegni. Tra le sue pubblicazioni: “Progetti in movimento. Philippe Starck (1997); “L’ospedale ridefinito. Soluzioni e ipotesi a confronto” (2000); “Metamorfosi dello spazio. Annotazioni sul divenire metropolitano” (2002); “Ito digitale. Nuovi media, nuovo reale” (2008); “Design Contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture” (2008); “Neoavanguardie e controcultura a Firenze. Il movimento Radical e i protagonisti di un cambiamento storico internazionale” (2017); “Firenze e le avanguardie Radicali” (2017); "Twentieth-Century Architecture and Modernity: Our Past, Our Present" (2022)

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Last modified: 5 Agosto 2024