Per Paola Viganò è il giardino biopolitico, per Stefano Mancuso fitopolis. Pur da prospettive diverse, il futuro urbano è nella trasformazione ibrida
“Eterogeneo e variegato come tutti i giardini, il giardino biopolitico è un luogo di coesistenza e riguarda il progetto di spazi entro i quali corpi, vite, desideri eterogenei si plasmano e interagiscono”. Così Paola Viganò (urbanista e docente a Losanna) nel suo libro Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione (Donzelli 2023, 280 pagine, 35 euro) – prendendo in prestito e allargando l’ipotesi biopolitica foucoltiana – si propone di ridefinire il complesso rapporto fra spazio, vita e potere.
Sembra rispondere con un neologismo Stefano Mancuso (botanico amatissimo dagli architetti), in un libro manifesto che presenta un approccio radicale al fare (o non fare) città oggi: Fitopolis, la città vivente (Laterza, 2023, 168 pagine, 18 euro).
Lontani dal moderno e dal centralismo “animale”
Per arrivare alla dimensione progettuale Viganò propone un’analisi critica dell’eredità del moderno e post-moderno attraverso i paradigmi di spazio funzionale, spazio natura e spazio sociale: “Lo spazio abilita, definisce condizioni di vita e apre (o può negare) possibilità di emancipazione. È strumento essenziale di redistribuzione: di opportunità, giustizia e orizzontalità”. Alla base vi è la consapevolezza che idee, teorie e progetti del moderno siano (forse irrimediabilmente) impolverati da norme, vincoli e regole che si depositano in uno strato di abitudini “che si normalizza e naturalizza nelle pratiche di costruzione urbane e territoriali, fino a divenire invisibile, non trattabile: parte della natura”.
La consuetudine da cui è necessario staccarsi si chiama invece, nella lettura di Mancuso, organizzazione umanocentrica: “Costruire le città secondo un modello animale creato per il movimento non sembrerebbe davvero una buona idea. Eppure è esattamente ciò che abbiamo fatto per millenni: abbiamo tentato di assimilare le nostre città immobili ai nostri corpi animali mobili, una scelta sconsiderata di cui paghiamo le conseguenze. Al contrario, il modello cui affidare la crescita, lo sviluppo e il funzionamento delle città è, senza dubbio, quello vegetale”.
Spazi: multipli, contraddittori, naturali
I due libri hanno struttura simile: un percorso di scritti dell’autore, alcune immagini a supportare il filo dei ragionamenti. Strutturato in tre parti quello di Viganò (il libro è nella serie Critica del progetto diretta da Cristina Bianchetti). La prima si chiama proprio così, Spazi. Se lo spazio funzionale è metafora di ordine, efficienza utilitarista, idea di macchina, lo spazio natura rappresenta l’idea di discontinuità, ma anche varietà, ibridazione fra città e foresta, città e giardino. Il terzo spazio, quello sociale, si plasma ai concetti di partecipazione, collettività e appropriazione. L’obiettivo è “di interrogare nuovamente questo deposito di immaginazione socio-spaziale, di porre domande parzialmente diverse da quelle che li hanno investiti nel passato; di denaturalizzare il loro ordine per poterli comprendere più a fondo e discutere il loro rapporto alle politiche sulla/della vita”.
Si presenta come un percorso di progressivo avvicinamento al progetto e alla visione, simile a quello proposto da Mancuso, il cui ragionamento – con un’organizzazione più libera – si dipana in otto diversi capitoli, da L’uomo è misura di tutte le cose a Le Vie degli Alberi. È nel settimo che compare il neologismo Fitopolis: “Se qualcosa va male in una città diffusa, le altre mille attività possono immediatamente supplire al danno; ma in una città specializzata, quando la sua ragion d’essere viene a mancare, cosa accade? Non c’è specializzazione che tenga. […] Ecco, quello di cui abbiamo bisogno per affrontare con maggiore sicurezza i prossimi anni sono città vegetali, generaliste, costruite secondo un’organizzazione decentralizzata e diffusa”.
Qui e ora, una trasformazione necessaria
Viganò offre un corpus teorico che contribuisce a definire la distanza fra la città attuale e quella del futuro prossimo. Torna dunque al centro la relazione fra vita (concetto allargato fino all’inclusione del non umano) e spazio “costituito di soggetti, […] risorsa, supporto, oggetto, […] agente” quale strumento per avviare una transizione ecologica, sociale ed economica. All’interno di questa visione, lo spazio si costituisce come capitale collettivo che va a formarsi nel tempo e in quanto tale “la sua trasformazione in altre forme di capitale richiede, nel mantenimento del suo valore, nella costruzione della durata, tempo di lavoro. Lo spazio capitale diventa patrimonio”. Avviene dunque un passaggio dal concetto di spazialità intesa come risorsa a quella di soggettività attiva, oltre che chiave per l’emancipazione e la libertà individuale e collettiva. Nel progetto biopolitico viene messa in atto una negoziazione e una cooperazione con il mondo naturale, insieme alle stratificazioni tecnologiche e culturali dove l’uomo è parte ma non più centro dell’esistenza.
Scende su un piano di pragmatismo e azione Mancuso: “Ogni macchina che non viene più utilizzata libera in città una quantità di spazio (fra strade, infrastrutture e parcheggi) in cui si può, molto più efficacemente, per la salute dei cittadini e dell’ambiente, piantare un albero. […] Trasformiamo le nostre strade in vie degli alberi anche senza aspettare che ogni altro pezzo del puzzle sia stato messo al suo posto. […] Non è necessario che le amministrazioni aggiustino tutto fin nei dettagli: la loro funzione principale, oggi, è rendere le città resistenti al riscaldamento globale e coprirle di alberi è una delle poche cose sagge che si possono fare”.
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compatibilità ambientale , libri , spazio pubblico , urbanistica
Last modified: 18 Maggio 2024