Tornato a rivedere il suo Quartier moderne Frugès a Pessac e trovandolo profondamente manomesso, Le Corbusier commentò: «Sapete, la vita ha sempre ragione; è l’architetto che ha torto»
Questa è la storia di un quartiere popolare nato per dare una nuova casa agli operai di uno zuccherificio. L’idea fu di Henry Frugès, un industriale francese con la passione per le arti che, nel 1923, affascinato dalle idee di quel famoso architetto d’origine svizzera detto Le Corbusier, gli affidò il compito di costruire una “città giardino” in una foresta di pini, a Pessac, un sobborgo di Bordeaux, nei pressi dei suoi stabilimenti. Frugès considerava un suo dovere civico realizzare case popolari, in un momento in cui in Francia ve n’era bisogno.
Le Corbusier utilizzò il quartiere per sperimentare le sue teorie sulla standardizzazione del processo costruttivo. Scrisse: «Voglio raccogliere la sfida di allestire queste abitazioni e di standardizzare l’intero processo, dalle pareti ai pavimenti ai tetti, in modo che siano conformi ai più severi standard di efficienza». Le semplici cellule aggregabili, fulcro del progetto, evocano le costruzioni per bambini: elementi modulari collocati uno sull’altro o incastrati. Nessun trucco, nessuna decorazione. No stile. Sì tipologia.
«Traendo ispirazione dalle macchine moderne, lo sguardo obiettivo puntato sul mondo, l’estetica moderna avrebbe attratto in modo diretto i lavoratori in un modo che essi avrebbero imparato ad apprezzare» (D. Lyon, A. Denis, O. Boissière, Le Corbusier. Uomo e architetto, KeybooK/Rusconi, 2001). Le case nude e gli spazi esterni avrebbero costituito un modello di comunità per lavoratori che solo l’estetica moderna era in grado di rappresentare.
Delle 135 case previste ne vennero costruite solo 51, che tuttavia rimasero invendute. Ad aiutare l’audace Frugès intervenne una legge del 1928 che offriva prestiti ai lavoratori e la possibilità, dopo esserne divenuti proprietari, di trasformarle come desideravano. Ma acquistate le case, gli operai dimostrarono di avere un’idea di bellezza profondamente differente da quella di Le Corbusier. Costretti tutti i giorni a rispondere ai ritmi della fabbrica, non sentivano nessun bisogno di calarsi in spazi dove veniva celebrato il dinamismo dell’industria moderna.
«Aspettarsi che chi ci vive si adegui vuol dire prevaricare le loro convinzioni». Così, col tempo, ognuno di loro apportò le modifiche che riteneva necessarie. Aggiunsero fioriere, tapparelle, bucature, balaustre, timpani. E naturalmente violarono la dottrina dei cinque comandamenti lecorbuseriani. Manomisero la copertura piana con tetti a spiovente, ricavarono garage tra i pilotis, interruppero la continuità delle finestre a nastro.
Lo scrittore Alain De Botton nel testo L’architettura della felicità (Guanda, 2006) sostiene la teoria che la ricerca personale della bellezza aspira sempre a ciò che manca nelle nostre esistenze. «Forse il gusto degli inquilini», scrive De Botton, «andava in direzione opposta a quello del loro architetto, ma la logica era identica. Proprio come il famoso modernista, anche gli operai della fabbrica avevano scelto uno stile che evocasse le qualità meno presenti nelle loro vite».
Taluno malpensante, nel caso specifico di Pessac, potrebbe obiettare che non fu la ricerca della bellezza a guidare la mano degli occupanti, ma semplici necessità pratiche: mancanza di spazio, infiltrazioni d’acqua, difesa dagli estranei. Le case di Le Corbusier, d’altronde, ben si prestavano all’antica pratica francese del bricolage, tra l’altro rivalutata, come idea di «partecipazione edilizia» a cavallo degli anni ‘60 del Novecento.
Lo stesso Le Corbusier, poco prima di morire, invitato a Pessac a rivedere il Quartier moderne Frugès, commentò: «Sapete, la vita ha sempre ragione; è l’architetto che ha torto». Non fece in tempo ad assistere alla riscoperta delle sue case avvenuta tra gli anni ‘70 e ‘80, grazie ai suoi fan: architetti, studenti e appassionati che misero in moto un processo di restauro dell’intero quartiere, riportato oggi all’aspetto che aveva nel 1925. Tanto che nel 2016 è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’umanità Unesco e oggi è meta di migliaia di turisti l’anno.
In quanto a Henry Frugès, travolto dalla crisi finanziaria del 1929, fu costretto a vendere tutto trasferendosi prima in Tunisia e poi in Algeria, da dove tornò in Francia dopo la dichiarazione d’indipendenza del 1962.
Ma a sostegno della teoria che le case di ognuno di noi parlano di come siamo o di come vorremmo essere, va detto che Frugès è rimasto noto anche per la sua dimora. Si era infatti fatto costruire per sé un hotel particulier a Bordeaux, chiamando ad abbellirlo i migliori decoratori del tempo, che lo trasformarono in una residenza dallo stile eclettico tra Decò e Art Nouveau. Niente a che vedere con la modernità minimalista che aveva deciso d’imporre ai suoi operai.
Immagine di copertina: inaugurazione del Quartier moderne Frugès a Pessac, maggio 1926 (tratto da D. Lyon, A. Denis, O. Boissière, Le Corbusier. Uomo e architetto, KeybooK/Rusconi, 2001)
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abitare , francia , L'archintruso , le corbusier , restauro del moderno
Last modified: 8 Maggio 2024