Pensieri a margine dell’anniversario della scomparsa di una delle figure più enigmatiche del Novecento
La porta del bagno della Penn Station di New York che non si apre, il 17 marzo 1974, impedendo che qualcuno possa accorgersi del malore fatale che ha colpito l’uomo dietro di essa, consegna alla storia una tra le più enigmatiche parabole dell’architettura del Novecento, dando inizio alla sua lunga, e per molti versi epica, fortuna critica.
L’uomo dietro la porta è ovviamente Louis Isadore Kahn, di cui in questi giorni ricorrono i 50 anni dalla morte. Ma anche la fine fisica è, per il maestro estone-americano, un termine tutto sommato relativo se è vero che le sue opere continuano ad essere celebrate e custodite da una folta schiera di estimatori capace di difenderle anche dal rischio di demolizione, come dimostra l’efficace campagna che ha permesso il salvataggio dei dormitori dell’Indian Institute of Management di Ahmedabad.
Una fortuna che ha superato i confini del tempo
Altre ancora sono state edificate postume, come il Franklin D. Roosevelt Four Freedoms Park, completato 12 anni fa grazie al contributo di Harriet Pattison, architetta paesaggista scomparsa a ottobre scorso, legata a Kahn da una lunga relazione sentimentale dalla quale è nato il regista Nathaniel. È stato proprio quest’ultimo, col suo potente viaggio filmico sulle tracce del padre, a rinvigorire un interesse mai del tutto realmente sopito per Kahn, come dimostrano le numerose mostre e iniziative svoltesi negli ultimi dieci anni. Oltre a My Architect – Il viaggio di un figlio, candidato all’Oscar come migliore documentario nel 2004, a Kahn è stata dedicata la biografia di Wendy Lesser, You Say to Brick: The Life of Louis Kahn (2018), tanto più preziosa quanto più si considera la rarità, di questi tempi, di opere di narrativa dedicate all’architettura.
Negli ultimi anni sono inoltre emerse le molteplici “legacies” kahniane, da quella romana con le sue lunghe filiazioni e le derive postmoderne, a quella scandinava, da quella indiana alle meno note eredità in Francia e nell’ex URSS.
Dal 2006, con i Louis Kahn Days (organizzati nella natia isola di Saaremaa da Ott Rätsep e Toivo Tammik), anche l’Estonia ha avviato una cospicua serie d’iniziative a tema attraverso la Louis Kahn Estonia Foundation. Ultima in ordine di tempo la pubblicazione, proprio in questi giorni, di The Last Notebook, una raccolta di appunti e disegni lasciati incompleti dal maestro, a cura della figlia Sue Ann.
Una tra le ragioni della fortuna e dell’attualità del pensiero kahniano risiede proprio nella sua capacità di parlare di architettura trasversalmente, al di là di un dato tempo storico e, soprattutto, anche a culture molto distanti tra loro: basti pensare alle ricadute della presenza di Kahn alla World Design Conference di Tokyo del 1960 e al leggendario incontro con i membri del nascente gruppo Metabolism (avvenuto nella Skyhouse di Kiyonori Kikutake), destinato a esercitare una profonda influenza sull’architettura giapponese. Nel folgorante ventennio entro il quale Kahn dà infine forma alla nuova architettura che da tempo ricerca – dopo l’epifanico soggiorno nella Città eterna – costruisce moschee e sinagoghe, chiese e conventi, case e musei, continuando instancabilmente ad accettare incarichi e a divulgare, senza risparmiarsi, il suo pensiero come docente e conferenziere.
Gli scritti, tra ermetismo ed enunciazioni
Diversamente da altri maestri modernisti, Kahn non affida alle pagine di un libro il suo pensiero teorico, eppure le sue enunciazioni, la sua filosofia architettonica, sono destinate, come poche altre, ad imprimersi nella cultura del Novecento, travalicando spesso anche l’ambito disciplinare.
Ma se già di per sé il Kahn progettista è figura sfuggente all’inquadramento di una cornice teorica, il corpus dei suoi scritti pone un grado di ulteriore complessità, che alla profondità dei concetti accompagna l’innovativo e peculiare uso che Kahn fa di molta terminologia. Non si tratta tuttavia di lemmi architettonici o legati al mondo della tecnica, bensì d’immagini e principi a carattere ontologico, dei quali l’architettura è riflesso ed espressione. Questa natura ermetica dei testi va ad aggiungersi, peraltro, ad una non sempre leggibile corrispondenza tra stagioni teoriche e stagioni del progetto, alla quale si devono chiavi di lettura tanto illuminanti quanto foriere di possibili fraintendimenti.
La prosa densa di Kahn, costellata da un fluire ininterrotto di pensieri e di proponimenti – dentro ai quali dardeggiano imprendibili lampi poetici – ha da sempre reso ardua la disamina del suo pensiero; specularmente, la natura assiomatica di alcune sue fortunate espressioni, facili all’estrapolazione dal contesto entro il quale erano state pronunciate, se da un lato ha sancito la fortuna di talune definizioni kahniane, ha dall’altro allontanato la comprensione del senso generale della sua ricerca; una ricerca condotta, soprattutto nella seconda parte della sua attività, all’interno di un nucleo organico di pensiero e progetto.
Negli scritti di Kahn, accanto a definizioni che una volta “codificate” (come la “meditata creazione di spazi”, “l’origine della scuola”, “la volontà di essere” e altre) non sono più soggette a modifiche nel tempo, altre subiscono una continua opera di ridefinizione, distruzione e ricostruzione semantica, in risposta ad un’evidente insoddisfazione dell’autore circa la capacità di esprimere la sostanza del suo pensiero. Kahn del resto non fa mai mistero dei momenti in cui non è convinto dell’efficacia di una definizione, né tantomeno di quando conia nuovi termini (parole composite, con suffissi o caratteri privativi come lightness, senzaluce) o conferisce significati “altri” a quelli già in uso. Al contrario, dichiara all’interlocutore l’operazione che sta compiendo coinvolgendolo attivamente in essa e stabilendo, in altri termini, quel profondo rapporto empatico che tutti i suoi studenti e colleghi gli hanno sempre riconosciuto.
Se il registro kahniano non è quello del poeta pur condividendone alcuni timbri, diversi scritti rivelano un’indubbia tensione poetica, sia nelle scelte formali che nella fraseologia adoperata, il che conferisce loro singolare potenza ma promuove al contempo anche un certo ermetismo.
La scrittura di Kahn, così come la si legge in testi emblematici come Order Is, è densa e frammentata come un flusso di coscienza, e viene spesso affrontata in un duetto con un altro interlocutore, reale o virtuale, che viene “immesso” nell’interiorità del suo pensiero. Non a caso, anche in occasione delle grandi conferenze che negli ultimi anni è sempre più spesso invitato a tenere, Kahn si avvale, per illustrare i propri ragionamenti, di un’ideale controparte – un ipotetico studente tedesco o un architetto ungherese o polacco a studio – del quale riporta all’uditorio le domande, domande che in realtà egli pone a se stesso e che servono a dar vita alla dialettica sul problema in questione e a innescarne una seconda con il pubblico in sala.
Un’opera che simboleggia molti significati
Molto più di tanti maestri del Moderno la cui opera appare ormai inevitabilmente “storicizzata”, in quanto legata in modo indissolubile alla visione ed alle prospettive di un tempo ormai passato, la figura di Kahn, a 50 anni dalla morte, continua a simboleggiare una molteplicità di significati, dal messianismo evocatore di consapevolezza civica citato da Mario Botta alla nostalgia rivoluzionaria di chi ancora spera in un rinnovamento etico delle istituzioni attraverso l’architettura.
Le opere del maestro di Philadelphia, in altri termini, ancora pongono, in pietra ed in cemento, mute interrogazioni sul senso dell’architettura e sul divenire dell’uomo nel tempo. Una domanda della quale, del resto, egli amava suggerire la risposta: “Ciò che è è sempre stato”, proprio come Louis Isadore Kahn.
Immagine di copertina: Louis Kahn mentre osserva il suo soffitto tetraedrico nella Galleria d’Arte dell’Università di Yale (foto Lionel Freedman)
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Last modified: 19 Marzo 2024