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Federico MarcominiWritten by: Città e Territorio

Ritratti di città. Astana, o del Kazakistan indipendente

Ritratti di città. Astana, o del Kazakistan indipendente

Il lungo percorso di autodeterminazione della capitale, dall’immagine di una vetrina globale all’attuale maturazione

 

ASTANA (KAZAKISTAN). La capitale del Kazakistan ha cambiato nome sei volte in meno di due secoli, e tre volte negli ultimi venticinque anni. I frequenti cambi di toponimo riflettono le tensioni che hanno attraversato il paese dal tramonto dell’Unione Sovietica, epoca che ha definito il Kazakistan odierno sotto vari aspetti: dai suoi confini, tracciati tra 1924 e 1936, alle lingue ufficiali, che includono ancora il russo. La Russia ne è stata primo partner strategico sino all’invasione dell’Ucraina nel 2022, non supportata dal governo kazako. Dopo il 1991, il paese ha dovuto pubblicamente mettere in discussione l’eredità russo-sovietica, anche nell’ambiente costruito: non ci si è limitati al cambio d’intitolazioni e all’abbattimento delle statue dei leader sovietici – iter comune nei paesi ex socialisti – ma si è costruita un’intera nuova capitale. Nella sua particolare storia, Astana è la metafora del Kazakistan indipendente, materializzazione di un percorso di autodeterminazione ancora in atto.

 

Dopo la fine del “secondo mondo”

Per il grande pubblico occidentale, le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale rimangono perlopiù avvolte da un esotismo imperscrutabile. L’ampia porzione di pianeta che separa l’Europa dal Levante, stretta tra la Russia a nord, e il Medioriente e il subcontinente indiano a sud, è una distesa fatta di steppe sconfinate e imponenti catene montuose in cui la presenza dell’uomo pare rarefatta, se non assente. La regione è stata colonizzata della Russia zarista tra XVIII e XIX secolo, per entrare poi in blocco nell’URSS e frammentarsi in una serie di “-stan” indipendenti dopo il 1991. Un’affascinante letteratura di viaggio, da Imperium di Ryszard Kapuściński (1993) a Sovietistan di Erika Fatland (2016), racconta l’oriente post-sovietico. I libri segnano due tappe di un cammino, dall’immediato crollo dell’URSS all’ipercontemporaneità, fatto di ridefinizioni sociali ed economiche, trasformazioni e persistenze, e rese dei conti più o meno sentite con il passato. 

Il Kazakistan, noto ai più per i trionfi del ciclista Aleksandr Vinokurov, o la caricatura fuorviante del film Borat (2006) – è la principale repubblica della regione. Con una superficie grossomodo sovrapponibile a quella dell’Europa centro-meridionale (ma una densità di 6,7 abitanti/kmq), e un’abbondanza di petrolio, gas e uranio, il paese è secondo solo alla Russia tra le potenze economiche dell’ex spazio sovietico. Più degli altri “-stan”, il Kazakistan ha cercato di dare un taglio netto al passato e aprirsi freneticamente al nuovo millennio globalizzato e neoliberista, a fronte di un contesto politico non altrettanto dinamico. Il paese è stato l’ultimo a dichiarare la secessione dall’URSS, quattro giorni dopo la Russia. L’allora leader era Nursultan Nazarbaev (1940) che, dopo la nomina a primo segretario del partito comunista kazako nel 1989 e la transizione a primo presidente del paese indipendente nel 1991, ha guidato il Kazakistan fino al 2019, attraverso elezioni poco trasparenti e un governo tacciato di autoritarismo da diversi osservatori internazionali. Nazarbaev è comunque riuscito a lanciare l’economia kazaka e ad attirare numerosi investitori internazionali (tra i primi, l’italiana ENI), coltivando nel mentre una passione per l’architettura. 

Non solo il suo culto della personalità ha avuto espressione privilegiata nella monumentalità, ma Nazarbaev stesso è stato direttamente coinvolto nell’architettura del paese post-sovietico abbozzando veri e propri “progetti”, oggi conservati al Museo nazionale del Kazakistan, per edifici e monumenti effettivamente realizzati secondo le sue indicazioni. Com’è lecito aspettarsi, l’attività architettonica di Nazarbaev si è concentrata nella nuova capitale, materializzazione della sua visione per il paese, della quale si pone come fondatore e “architetto”.

 

Da Akmolinsk ad Astana

Nel 1994, Nazarbaev decide di trasferire la capitale da Almaty (già Alma-Ata, nel confine sud-est) ad Akmola, modesta città industriale nell’area centro-settentrionale; il trasferimento diventa effettivo nel 1997, e la città cambia nome in Astana (termine kazako traducibile come “capitale”). Le ragioni del trasferimento sono diverse. Almaty si trova in un’area sismica, troppo vicina ai confini kirghizi e cinesi, e si temeva il separatismo delle zone a nord, allora popolate in prevalenza da russi, ma emerge chiaramente anche la volontà di ridisegnare il volto del paese.

Akmola aveva questo nome solo dal 1992, una variazione del toponimo originale, Akmolinsk, che le era stato restituito nello strascico del revisionismo post-sovietico. La cittadella fortificata di Akmolinsk era stata fondata delle truppe zariste attorno al 1830. Territorio dal celebrato retaggio nomade, è con la colonizzazione russa che in Kazakistan appaiono le prime significative tracce di urbanizzazione; un processo che, in epoca stalinista, verrà tradotto in una forzata “sedentarizzazione” dei nomadi che, assieme alla collettivizzazione agricola, costerà la vita a oltre un milione di kazaki nella carestia del 1930-33. 

Akmolinsk conosce un particolare sviluppo negli anni cinquanta, quando il segretario del PCUS Nikita Chruščëv la elegge centro amministrativo della “campagna delle terre vergini”, un piano per rendere coltivabili decine di milioni di ettari e risolvere la carenza di grano che affliggeva l’URSS. La città cambia nome in Celinograd (“città delle terre vergini”) e viene interessata da un piano urbanistico che la dota delle immancabili chruščëvka e delle principali istituzioni della città sovietica, senza mai espandersi oltre il fiume Išim. 

Astana ha, tuttavia, poco o nulla che fare con Celinograd/Akmola. La nuova capitale viene costruita sulla riva sinistra del fiume, libera da preesistenze e quindi simbolicamente e materialmente adatta alla sua vocazione. Il masterplan viene affidato a Kishō Kurokawa, che per la prima volta misura i precetti del Metabolismo e della “simbiosi” con una capitale di stato. La sua visione è allineata a quella delle autorità, che individuano nella compresenza di identità europea e asiatica, di diverse etnie e confessioni religiose, il carattere fondativo del paese. La “simbiosi” di Kurokawa, pur non influenzando direttamente l’architettura della capitale, si riflette nei progetti attuati nei vent’anni successivi.

 

Dalla riva destra alla sinistra: l’effetto Bilbao

Se la città sovietica sopravvive nella cosiddetta “riva destra” (le chruščëvka sono semmai rivestite da nuove facciate pseudo-storiciste), gli edifici della “riva sinistra” sono manifestazioni, a prima vista eccentriche e ambiziose, del modo in cui il paese intende presentarsi nello scenario globale. L’ambiente costruito di Astana invita spontaneamente a confronti non lusinghieri con Dubai e le metropoli asiatiche, ma anche con Las Vegas; la logica architettonica pare connotata da un gusto per l’audacia e la contraddizione squisitamente postmoderno, una ricerca di un “effetto Bilbao” che si annulla per saturazione. 

All’architettura di Astana viene affidato il compito, complesso quanto fisiologico, di far rivivere la storia e la tradizione precoloniale del paese, mostrandosi simultaneamente aperta ad un futuro “moderno” e globale. È lo stesso presidente a dare le direttive con la torre Bayterek (2002), tra le prime costruzioni della capitale, da lui disegnata come simbolo per la città e il paese; l’iconografia deriva dal folklore kazako (un racconto sull’albero della vita), declinata in linguaggio high tech. 

La stessa sfida è stata affrontata dalle archistar invitate ad Astana per porre la città sotto i riflettori dell’architettura globale. Oltre a Kurokawa e Manfredi Nicoletti, è stato soprattutto Sir Norman Foster a plasmare il volto della capitale. Il centro commerciale Khan Shatyr (2010) s’inserisce nel solco della torre Bayterek: l’edificio, talvolta presentato come “tenda più grande del mondo”, è un’immensa tensostruttura che omaggia la cultura nomade, realizzata in materiali innovativi che consentono un controllo climatico tale da ospitare una spiaggia artificiale (il Kazakistan non ha accesso al mare; le temperature di Astana oscillano tra i -40° in inverno e i +40° in estate). L’attività di Foster ad Astana era stata inaugurata dalla bizzarra “piramide”, il Palazzo della pace e della riconciliazione (2006), sede d’incontri ecumenici tra guide spirituali di religioni diverse che, nel 2022, ha visto la presenza di Papa Francesco. L’ultima costruzione, il Centro Nazarbaev (2013), sostituisce un progetto originariamente affidato a BIG. 

L’ultimo grande banco di prova per le star è stata la progettazione di Expo 2017. Al concorso, vinto da Adrian Smith e Gordon Gill, avevano partecipato Stefano Boeri, Coop Himmelb(l)au, Snøhetta e Zaha Hadid Architects. Non solo la sede Expo si trova curiosamente prossima al cuore della città, ma diversi padiglioni, compresa la gigantesca sfera del volume principale, sono stati riconvertiti dopo l’evento.

Ridurre il panorama di Astana ad un’estetica “archistar” sarebbe, tuttavia, approssimativo. A conferirle il suo carattere frizzante sono anche i “prestiti” da culture architettoniche diverse, manifestazione dell’apertura del paese, ma anche dei suoi rapporti geopolitici. Oltre ai grandi riferimenti occidentali – il Palazzo Ak Orda (2004), residenza presidenziale, imita la Casa Bianca di Washington – altri rimandi vanno dal mondo cinese a quello russo-sovietico: il Triumf Astany (2006), dono dell’allora sindaco moscovita Jurij Lužkov, è una reinterpretazione moderna dell’architettura stalinista che aleggia come sinistro promemoria di un periodo particolarmente buio per il paese. 

Le moschee assolvono la doppia funzione di rappresentanza geopolitica (la prima, nel 2005, dono dell’emiro del Qatar) e di consolidamento della sempre più sentita identità islamica. Non è un caso che l’ultimo grande progetto promosso da Nazarbaev sia stato proprio una moschea: la “più grande dell’Asia centrale”, come viene spesso promossa, inaugurata nel 2022, con una capienza di oltre 200.000 posti. 

 

Non più Astana “one man show”

Astana rappresenta il tentativo di materializzare un’identità nazionale non completamente definita, che guarda senza soluzione di continuità all’Occidente e all’Oriente, al mondo russo e a quello islamico, senza che nessun riferimento riesca ad essere pregnante e, proprio per questo, diventando specchio paradigmatico della “modernità” globalizzata. Va comunque sottolineato che la capitale qui descritta rappresenta la visione univoca di un’autorità, il modo in cui Nazarbaev immaginava il paese. È rimasta a lungo popolare la nozione di Astana one man show, un parco giochi per il presidente, dormitorio per politicanti e imprenditori. Gli ultimi anni stanno segnando, però, un significativo cambio di rotta.

Nel 2019 Nazarbaev ha lasciato la presidenza (pur mantenendo un ruolo politico significativo) al fedele Qasym-Jomart Toqaev che, appena insediato, ha ribattezzato la capitale Nur-Sultan in onore del suo fondatore; ennesimo cambio di toponimo, mai del tutto accettato dalla popolazione. Violente proteste hanno scosso il paese nel gennaio 2022, prendendo di mira, tra l’altro, il lascito di Nazarbaev e la sua costante presenza nella politica del paese. Il malcontento si è espresso nell’abbattimento delle statue che lo raffiguravano, ed è culminato con la volontà, accolta nel settembre 2022, di veder restituito alla capitale il nome “originale” di Astana.

 

Tra contraddizioni e attivisti

Complice un sostanziale disinteresse di Toqaev in materia, sembra che la collettività stia contribuendo a scrivere una nuova storia per la capitale. Il centro città non viene più identificato con la già “vecchia” architettura rappresentativa appena descritta, ma con la più frequentata zona dell’Expo e il suo grande centro commerciale, nei pressi di un importante campus universitario. 

Le frequentatissime passeggiate architettoniche nella “riva destra” promosse da @fading.tse, invece, s’impegnano a far conoscere la città “storica” Celinograd (Tselinograd nella traslitterazione anglosassone), valorizzando la memoria di una città ostentatamente presentata come nuova, ma custode di un passato a rischio di oblio. Comparabilmente, le iniziative dell’Urban Forum Kazakhstan propongono riflessioni su vari temi per le maggiori città del Paese, con un costante invito alla partecipazione attiva in merito soprattutto a questioni ambientali e sociali.

Le preoccupazioni ambientali sono quelle che maggiormente smuovono gli animi, in un contesto in cui il diritto a manifestare non è sempre garantito. Il tema è particolarmente delicato per un paese che, pur avendo dedicato Expo 2017 all’energia rinnovabile, ha costruito la sua ricchezza sui combustibili fossili; una questione che continua a sollevare problemi (l’esplosione di un pozzo petrolifero nel febbraio 2024 ha rilasciato nell’atmosfera 127.000 tonnellate di metano, l’equivalente di 717.000 automobili per un anno). 

Vanno segnalate le manifestazioni portate avanti dagli attivisti di SOS Taldykol, finalizzate alla preservazione del lago omonimo a pochi chilometri dal centro di Astana. L’area, di elevato interesse naturalistico, è da anni afflitta da una feroce speculazione edilizia che minaccia di prosciugare le acque e distruggere l’ecosistema. Gli attivisti, che hanno organizzato sul sito manifestazioni e dibattiti, ma anche eventi culturali e sessioni di yoga, dal 2020 hanno presentato appelli alla Corte, avanzato richieste alla Municipalità e contattato direttamente il presidente senza mai riuscire a influenzare significativamente i lavori, nonostante il larghissimo supporto della cittadinanza; alcuni hanno anzi dovuto affrontare spinose conseguenze legali per le loro azioni. 

Al 2024, è difficile immaginare un esito alla vicenda di Taldykol. Sembra emergere però un nuovo modo di guardare Astana nell’insieme: una versione non istituzionalizzata della capitale, che si sta progressivamente trasformando da città-vetrina a città vera e propria, vissuta e apprezzata non tanto per fervore patriottico o identificazione nel simbolismo politico, ma per sensibilità critica e genuino senso di appartenenza.

La breve storia della capitale kazaka è testimone tanto dell’abuso dell’architettura come strumento politico, quanto della difficoltà d’imporre una visione univoca alla popolazione senza considerarne le esigenze. Se può essere prematuro parlare di una nuova Astana “dal basso”, la strada tracciata appare auspicabile.

Immagine copertina © Federico Marcomini

 

Autore

  • Federico Marcomini

    Dopo la laurea magistrale in Storia dell’arte all’Università di Firenze, svolge il dottorato di ricerca presso il Dipartimento di architettura dello stesso ateneo, con una tesi dedicata ad Astana, capitale del Kazakistan. Si è interessato dell’eredità del linguaggio classico nell’architettura ipercontemporanea degli ex paesi socialisti, presentando le sue ricerche in pubblicazioni scientifiche e convegni internazionali. Collabora con l’Università La Sapienza di Roma, ed è assistente alla ricerca presso il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza

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Last modified: 9 Marzo 2024