Riceviamo e pubblichiamo una riflessione sulle sfide e i paradossi che riguardano le culture della formazione, del progetto e della città
L’architettura ha smarrito le qualità essenziali per continuare l’opera della natura con altri mezzi. Il problema non è tanto se sia vero o no che esistano i cambiamenti climatici, bensì se possiamo accettare che, per contrastarli, si destituisca di fondamento l’esistenza della vita innaturale sulla Terra con fini abitativi: esistere nonostante il Pianeta e non in funzione del Pianeta.
La transizione ecologica ha un presupposto errato: correggere un’operazione sbagliata cambiando il risultato. Continuare a mantenere gli stessi stili di vita, alimentandoli in modo diverso, rendendo così sostenibile l’errore.
L’architettura è stata arruolata in questo progetto politico, economico e sociale e, per essere commisurata al compito, ha immolato il suo mandato storico, vestendosi di un abito accettabile, definibile come architettonicamente corretto”. La cultura architettonica, in cambio, si è ritagliata una “riserva culturale”, dove poter continuare a tramandare il suo portato storico, a patto che sia esercitato all’interno di uno spazio e un tempo preciso e confinato. Un esercizio del tutto simile a quello d’alcune tribù autoctone nordamericane, che si calano nei vestiti tradizionali e cantano le loro canzoni di un tempo a uso e consumo dei turisti.
Fuori da questa riserva, però, è l’architettonicamente corretto a dettare l’agenda culturale e a influenzare, soprattutto, le scuole di architettura. Queste non sono più un iter artistico e umanistico, come lo furono sino al secondo dopoguerra, e nemmeno un iter politecnico, come lo sono state sino alla fine dello scorso millennio, quando alla domanda se l’architettura fosse arte o scienza si poteva rispondere attraverso queste scuole, in cui si tenevano insieme le due cose.
L’architettonicamente corretto ha bisogno di una scuola in cui si faccia credere che il confronto con le questioni dell’ecologia e della sostenibilità siano una novità per l’architettura e il costruire. Di una scuola in cui è stato eliminato ogni possibile riferimento, tecnico e formale, a ogni precedente che non abbia un’esplicita e dichiarata formalizzazione sostenibile contemporanea, per soluzioni e materiali. Di una scuola in cui si semplifica la questione dei fabbisogni umani, banalizzando la ricerca della qualità, appiattendola solo sul risparmio energetico. Di una scuola in cui si banalizza la rilevanza del rapporto con i fattori di localizzazione (il rapporto tra la forma del prodotto e quella del luogo), riducendo tutto all’utilizzo di materiali ottenuti da materie prime rigenerabili. Di una scuola in cui si banalizza la ricerca della bellezza, che ha una relazione storica e continua con il concetto etico di sobrietà, in cui il meno è realmente più, trasformando questa ricerca nell’applicazione di soluzioni finalizzate al concetto di risparmio.
L’architettonicamente corretto usa una serie di preconcetti soggettivi, scelti opportunamente per supportare e promuovere una fase della nostra storia, caratterizzata da un uso geopolitico dell’emergenza ambientale. L’importanza dell’architettonicamente corretto all’interno di questo progetto geopolitico consiste nella specifica influenza che l’architettura ha sul prodotto artificiale più rilevante dell’umanità: la città. Se il positivismo classico servì alla rivoluzione industriale per forgiare un pensiero sul destino dell’uomo e delle società, il positivismo ecologico serve a giustificare una ridefinizione dell’assetto dei poteri su scala globale, da attuare attraverso un profondo cambiamento dei paradigmi energetici mantenendo invariati, però, gli stili di vita urbani.
«L’austerità comporta delle restrizioni a delle disponibilità cui si è abituati; a delle rinunce a certi vantaggi acquisiti. Noi siamo convinti che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose, non conduca a un peggioramento delle qualità e umanità della vita. Una società più austera può essere più giusta, meno diseguale, più libera, più democratica, più umana». Queste parole di Enrico Berlinguer, chiariscono quale potrebbe essere la strada per un’architettura della città in cui le trasformazioni necessarie per correggere l’errore non consistono nel trovare delle fonti diverse per alimentarlo, ma nel prefigurare nuove relazioni urbane che siano in sé capaci di riformulare un’estetica pubblica più equilibrata rispetto al tempo e le risorse.
Non è più il momento di accontentarci del meno è più, ma di capire che dobbiamo abituarci a ottenere di più da meno: More from Less. Correggere un errore modificando il risultato o è una svista o è una menzogna. Se fosse menzogna, ci saremmo persi la bellezza volontariamente e senza opporre alcuna resistenza. Perché «Bellezza è verità. Verità, bellezza. Questo solo sulla Terra conosciamo: ed è ciò che sapere importa».
Immagine di copertina: Isidoro Pennisi con Camillo Leone e Renato Dendinelli, progetto di concorso per l’ampliamento del Museo del Novecento a Milano (2021)
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compatibilità ambientale , lettere al Giornale , università
Last modified: 9 Marzo 2024