Fino al 25 agosto il MAK di Vienna presenta 13 casi studio che intersecano architettura, sociologia e politica
VIENNA. Presso il MAK (Museo di Arti Applicate), la mostra “Protest/Architecture: Barricades, Camps, Superglue” mette in luce il ruolo dell’architettura nelle proteste civili, dal 1849 ai giorni nostri.
All’inizio vi fu la barricata: un cumulo spurio in ambito urbano, perlopiù improvvisato, ammassato, per difendere, ostacolare, rallentare l’avanzata dell’avversario. In Europa il suo secolo d’oro fu l’Ottocento, durante i moti rivoluzionari in numerosi paesi, che la elessero ausilio primario di lotta e dunque manufatto da perfezionare sempre più, come fece a Dresda nel 1849 l’architetto Gottfried Semper, che dirigeva la locale Accademia di Belle Arti e studiò con successo il modo di rendere insuperabili gli sbarramenti costruiti dai ribelli.
Ribelle fu anche nel 1962 la barricata di fusti di metallo che Christo e Jeanne-Claude eressero per otto ore nella stretta Rue Visconti a Parigi. Una solitaria azione di protesta dal titolo “Il muro di fusti di petrolio – La cortina di ferro“, creata con elementi costruttivi poveri ma potentemente simbolici, che avrebbero contrassegnato poi un ampio periodo della produzione artistica della coppia.
L’evoluzione della protesta civile
Nel contesto di nicchia delle proteste civili, nella seconda metà del XX secolo la barricata è retrocessa lasciando il posto ad altri mezzi di varia tipologia, giungendo ai nostri giorni alle barricate umane di attivisti incollati su grandi arterie di traffico. In Asia, a Hong Kong, il concetto di barricata si è invece trasformato nel 2019-20 in installazione urbana di fascinazione estetica: i mattoni che negli anni delle più accese rivolte studentesche euro-americane venivano lanciati contro le forze dell’ordine, qui diventarono lunghe teorie di simbolici ostacoli quasi stilizzati in ideogrammi.
Analogie e differenze della protesta
Sull’universo delle proteste collettive che in Europa o in Asia, in America o in Africa intersecano architettura, sociologia e politica, il MAK ha avviato assieme al Deutsches Architekturmuseum uno studio su 13 casi di protesta a partire dal 1968 e ne ha espresso analogie e differenze nella mostra, ora giunta alla seconda tappa dopo Francoforte.
Nella sede affacciata sulla Ringstrasse, un grande numero di gigantografie rivela l’aspetto funzionale ed estetico di agglomerazioni spontanee pensate per resistere durante lunghe e articolate proteste. Scatti che evidenziano anche gli sviluppi dell’arte della protesta, per esempio là dove essa vira verso soluzioni ardite quanto accorte dal punto di vista della resilienza, con veri e propri insediamenti sugli alberi, uniti da fluttuanti ponti di corda, che evocano Robin Hood e i suoi accoliti e che nei casi tedeschi e austriaci illustrati, sottolineano l’obbligo che ogni costruzione anche improvvisata, superiore ai 2,5 metri di altezza, vada sgombrata con particolari criteri che non mettano a repentaglio la sicurezza delle forze di polizia e dei dimostranti: un’insolita sinergia tra burocrazia e “architettura a effetto ritardante”, come la definiscono i curatori Oliver Elser, Anna-Maria Mayerhofer, Jennifer Dyck e Sebastian Hackenschmidt.
Il ruolo dell’architettura nelle proteste
Nell’assai efficace percorso espositivo (allestimento: Elena Schütz, Julian Schubert e Leonard Streich) vi sono anche i kit di base che alcuni movimenti di protesta hanno sviluppato per manifestare al meglio il proprio dissenso. Al MAK sono disposti con senso estetico che li nobilita in design funzionale: come le tre canne di bambù che nel 2017-18 in Brasile venivano fornite ai dimostranti assieme a un telo cerato e della corda.
“L’oggetto della nostra indagine è il ruolo giocato dall’architettura nelle proteste e non quello della polizia”, mettono le mani avanti i curatori su un cartello all’ingresso. Tuttavia l’aspetto brutale della maggior parte degli sgomberi risulta poi evidente dal collage di filmati che da un grande schermo diffonde immagini di violenza contro inermi dimostranti, magari intenti a farsi tagliare barba e capelli dal barbiere improvvisato tra le baracchette.
“L’architettura di protesta inizia quando qualcuno conquista dello spazio con il proprio corpo”, proseguono i curatori, “e si declina via via fino a costruzioni complesse”. Alla fine, però, l’ineluttabile esito è quasi sempre la demolizione dei manufatti.
Una serie di piante e modellini ricostruisce gli assetti delle postazioni di protesta oggetto dello studio. E alla fine del percorso, un lungo tavolo propone una lista di FAQ riguardanti le leggi vigenti in Austria in tema di dimostrazioni: mi posso incollare a una strada o è illegale? posso spruzzare messaggi sul selciato? E se attacco un cartello a un lampione compio un reato?L’ottimo catalogo tedesco-inglese è in forma di manuale, con glossario in ordine alfabetico, e approfondimento dei 13 casi scelti.
Immagine di copertina: © Flavia Foradini
PROTEST/ARCHITECTURE. Barricades, Camps, Superglue
dal 14 febbraio al 25 agosto 2024
MAK Vienna
Curatori: Oliver Elser, Anna-Maria Mayerhofer, Jennifer Dyck e Sebastian Hackenschmidt
mak.at/protestarchitecture
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architettura e politica , austria , germania , mostre , spazio pubblico , vienna
Last modified: 28 Febbraio 2024