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Patrizia MelloWritten by: Reviews

Wim Wenders e il potere zen della cura (delle toilette)

Wim Wenders e il potere zen della cura (delle toilette)

Tra servizio e un po’ di architettura, il film Perfect Days riflette sull’esistenza e sul raggiungimento dell’equilibrio interiore

 

Perfect Days (2023), il film tanto atteso di Wim Wenders, si presenta come una sorta di messaggio augurale per gli spettatori affinché, guardando la vita del protagonista, tornino a pensare a se stessi come “persone uniche” e non come “uno tra i tanti”. Lo sguardo di Wenders, infatti, abbraccia letteralmente la vita del suo personaggio, Hirayama (Koji Yakusho), rendendola “unica”, fino a regalarci un micromondo che nel film funziona come una vera e propria calamita. Noi vorremmo essere lui e raggiungere il suo equilibrio interiore. Lo stesso Wenders in una lunga intervista paragona Hirayama a un monaco, una persona gentile con gli altri, accudente, amante del silenzio. Ma come nasce questo equilibrio interiore?

Hirayama è una sorta di custode dei nuovi sorprendenti bagni pubblici di Shibuya a Tokyo (i primi due inaugurati nel 2020), affidati alla creatività di noti architetti di fama internazionale (tokyotoilet.jp/en) che nel film appaiono uno dopo l’altro, uno più bello dell’altro, e di cui ogni giorno si prende cura pulendoli in maniera così meticolosa da diventare una sorta di operazione zen che permette a lui di proseguire la giornata in modo eccellente (perfetto) spostandosi da un luogo pubblico all’altro secondo un ritmo di calma rilassata pienezza. Alla pulizia dei bagni seguono quella personale in bagni ancora una volta pubblici; i pasti, sempre negli stessi locali dove sentirsi come a casa “dopo una lunga giornata di lavoro”; il lavaggio dei propri indumenti in una lavanderia a gettoni; la pulizia, questa volta, della propria abitazione (presumibilmente nei giorni festivi).

“Prendersi cura” sembra il sottofondo sussurrato nel corso del film, che culmina nell’atto di far crescere piccole piantine trovatelle in casa, così da ricreare quel minimo di estasi che là fuori le grandi chiome degli alberi ci regalano ogni giorno passando spesso inosservate agli occhi dei più, ma non a quelli di Hirayama che, invece, le fotografa con una vecchia Olympus in attesa dello sviluppo cartaceo e poi di una scatola dove essere gelosamente catalogate e custodite come testimonianza di attimi, di sensazioni rubate là fuori e ora parte della propria esistenza quotidiana; un gesto di gratitudine per la natura, colta proprio nel momento in cui la luce s’insinua tra le chiome degli alberi (komorebi in giapponese) regalandoci attimi di totale appagamento.

Ogni giorno Hiramaya, appena varcata la soglia di casa, alza riconoscente lo sguardo verso il cielo prima d’iniziare il proprio viaggio quotidiano segnato da un contrappunto d’eccezione, la Tokyo Skytree (2012), che, come un grande punto esclamativo irrompe nello skyline omologante della metropoli, immortalata in diversi momenti della giornata, una sorta di menhir metropolitano che si distacca dal resto, ossia dallo scorrere monotono di una metropoli indaffarata e stanca, coi flussi di auto che si rincorrono sempre uguali, mentre Hirayama, chiuso nel suo abitacolo a 4 ruote, si affida alla solidità di un tempo sorpassato e infila nell’apparecchio una cassetta per ascoltare Patti Smith, Mick Jagger… una vera e propria iniezione di nostalgia per tutto ciò che è stato, in tempi rapidissimi, scartato e che, in questo film, viene srotolato come un tappeto di beatitudine extra, fuori dagli schemi, fuori dalla mischia, in uno stato di grazia per la bellezza dei ritmi, delle voci, di certi gesti (come infilare la cassetta dal verso giusto…) che fanno spuntare sorrisi – sempre accennati ma intensi – sul volto di Hirayama, la cui straordinaria interpretazione conduce ogni magistrale inquadratura, anche in questo senso, verso la “perfezione”. Mentre il grado di comfort muta e si dipana passando dall’auto alla propria modestissima casa su più piani a Oshiage, dove una sintomatica schiera di libri accompagna Hirayama nei momenti di relax che culmina nell’ascolto di Lou Reed… in un interno domestico esemplare nella sua essenzialità intelligente, poiché tutto c’è e niente c’è; ossia basta il necessario per fare ambiente, come del resto la tradizione giapponese insegna.

 

Sulla buona strada per un “giorno perfetto”

Siamo davvero sulla buona strada per ottenere, alla fine della giornata, il nostro “giorno perfetto” da reiterare, tale e quale, senza ombra di dubbio. Lo abbiamo maturato insieme al protagonista del film, seguendolo inquadratura dopo inquadratura, nel suo eloquente silenzio, rotto occasionalmente dai pochissimi dialoghi che fanno capolino soprattutto verso la fine del film, quando all’improvviso spunta in qualche modo il passato di Hirayama… la visita di sua nipote. E lo spettatore può ora immaginare qualcosa di una vita precedente a quella di addetto alla pulizia dei bagni di Shibuya. Nella mente di Wenders si tratterebbe di un manager affermato (ma potrebbe essere qualsiasi uomo ricco e di successo) che a un certo punto prova profondo disgusto per una vita misurata esclusivamente sull’arricchimento incessante, sballottata tra un albergo di lusso e l’altro e che “trova pace” solo in un cambiamento radicale, vestendo gli abiti di quel monaco, un uomo che si prende cura di ciò che è pubblico, che è appagato dal rendersi utile, a partire dalla dedizione estrema con cui pulisce i bagni pubblici.

Uno dei maggiori problemi legati alla pace”, afferma Wenders, “è che i nostri paesi e le nostre economie sono dipendenti dalla crescita. La crescita crea guerre. La crescita crea disuguaglianza… Crescere di più è possibile solo a scapito di altri che cresceranno di meno, e questo è il motivo della maggior parte delle guerre”.

 

Servizio pubblico come esercizio colto di architettura

E a questo punto entra prepotentemente in gioco l’altra lezione che il film ci dà, seppure indirettamente. Un servizio pubblico come i bagni che diventa esercizio colto di architettura, con la creazione di spazi iperfunzionanti, attraenti, inclusivi, giocosi… Micro architetture a servizio della comunità, come tasselli preziosi di un racconto urbano distratto, intermezzi che generosamente (come ogni architettura che si rispetti dovrebbe fare) rendono lo scorrere delle giornate gradevole e funzionale per tutti. Una lezione che merita una trattazione specifica. Sarà per un’altra volta…

Nel frattempo, come suggerisce il grande regista, l’invito è quello di provare a giocare con le nostre stesse ombre. Una conferma – seppure vaga – della nostra esistenza.

 

 

Autore

  • Patrizia Mello

    Si interessa di teoria, storia e critica del progetto contemporaneo, argomenti su cui svolge attività didattica e ricerca, pubblicando numerosi articoli e saggi, e organizzando convegni. Tra le sue pubblicazioni: “Progetti in movimento. Philippe Starck (1997); “L’ospedale ridefinito. Soluzioni e ipotesi a confronto” (2000); “Metamorfosi dello spazio. Annotazioni sul divenire metropolitano” (2002); “Ito digitale. Nuovi media, nuovo reale” (2008); “Design Contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture” (2008); “Neoavanguardie e controcultura a Firenze. Il movimento Radical e i protagonisti di un cambiamento storico internazionale” (2017); “Firenze e le avanguardie Radicali” (2017); "Twentieth-Century Architecture and Modernity: Our Past, Our Present" (2022)

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Last modified: 16 Gennaio 2024