Ultimo anno di un lungo mandato, che per il futuro lascia un nuovo Piano di Governo del Territorio, l’esperienza di Capitale Italiana della Cultura 2023 e una città trasformata
A Bergamo si sta concludendo il lungo mandato di Giorgio Gori, sindaco dal 2014. È stato invitato, insieme al primo cittadino di Verona Damiano Tommasi, all’interno del Mayors Corner del Festival Internazionale delle città Utopian Hours, dal 13 al 15 ottobre alla Centrale Lavazza di Torino. Nell’occasione abbiamo dialogato con lui sulle trasformazioni e il futuro della città che il prossimo anno lascerà dopo 10 anni.
Questo è l’ultimo anno in cui lei è sindaco di Bergamo, con le elezioni per il suo successore nel 2024. Al di là del visibile (i molti progetti avviati e in corso), che città lascia rispetto a quella che ha trovato?
In due mandati si sono fatte un po’ di cose. Il tempo tra pianificazione, ricerca delle risorse economiche e progettazione e un’infinita trafila amministrativa non di rado travalica il singolo mandato… Mi sembra che la città si sia sensibilmente trasformata dal punto di vista fisico, seguendo uno sviluppo che ha lasciato l’espansione per passare alla rigenerazione e alla riqualificazione di aree o immobili che hanno trovato una nuova funzione. L’elenco delle aree “ex” su cui abbiamo messo mano in città è molto lungo e corrisponde per lo più a nomi d’industrie manifatturiere che, come la OTE e la Reggiani, hanno lasciato vuoti nel tessuto della città. Per la trasformazione della Reggiani, la seconda area dismessa in termini di dimensioni, c’è un progetto ambizioso che rende centrale la funzione pubblica – funzione che è sempre stata al centro delle riqualificazioni che si sono susseguite in questi anni – e prevede il collocamento del polo universitario di Ingegneria dalla sede ora a Dalmine. I contenitori storici, poi, sono stati oggetto di un infinito dibattito pubblico che ha portato un altro elenco di “ex immobili” tutti da rifunzionalizzare: gli ex conventi del Carmine e di Sant’Agostino, così come l’ex carcere di Sant’Agata, hanno tutti trovato una nuova funzione o sono stati restaurati e restituiti alla città. Sono stati gli anni del fare, abbiamo cercato di agire e trovare destinazioni. Non abbiamo fatto tutto, però molto sì. Resta ancora da portare definitivamente in porto la più grande trasformazione di area dismessa, quella dello scalo ferroviario, su cui è stato fatto un percorso complesso che confidiamo di concludere prima della fine del mandato. In ogni caso, il cantiere della nuova stazione partirà a febbraio e il resto andrà a seguire.
Secondo Elena Granata, “realtà come Bergamo, Brescia, Lodi, Mantova sono sempre stati centri dove si vive bene, ma in cui mancano le opportunità e quindi «Poi se devi lavorare vai a Milano». Oggi le città medie che hanno una buona amministrazione, un buon rapporto con il paesaggio e una buona qualità di vita sono quelle con più chance, soprattutto se investono in salute e servizi. È il momento perfetto per tutte quelle realtà che in Italia sono sempre state viste come lo studente bravo, ma non eccellente, di diventare eccellenti”. Pensa che Bergamo in questo sia riuscita?
La mia percezione è che la città abbia fatto uno scatto. Lo slogan della mia prima campagna elettorale – poi abusato, ma che allora non lo era – era quello del cambio di passo: la città già allora aveva tutte le potenzialità di cui parla Granata, ma le mancava un quid di dinamismo, concretezza, voglia di fare, ambizione di emergere in qualche modo tra le città medie lombarde, e guadagnare una riconoscibilità e un’attrattività che molto hanno a che fare con il lavoro e l’opportunità. Oggi Bergamo è una città cresciuta, lo dicono anche gli indicatori economici. Pur avendo attraversato fasi complesse, come la crisi del 2007-08 e la pandemia, ha rafforzato la vocazione manifatturiera facendo molto leva su innovazione, ricerca e formazione. Abbiamo puntato sulla qualificazione del capitale umano come condizione di competitività territoriale, cercando di svolgere il citato “buon vivere” come compito. Concretamente si è trattato di migliorare un requisito oggi imprescindibile, la qualità ambientale, e offrire servizi di buon livello, in particolare sanitari e amministrativi, con la consapevolezza che il welfare è base della competitività di una città. Una città più coesa e più inclusiva è più forte e maggiormente in grado di sviluppare il proprio potenziale. Abbiamo messo in vetrina le bellezze monumentali e naturalistiche di cui i bergamaschi erano gelosamente custodi senza una propensione di marketing, rendendo il turismo uno dei pilastri dell’economia di un territorio che quest’anno ha registrato +65% di presenze. Nonostante una dinamica demografica che vede le nascite inferiori ai decessi, la popolazione è leggermente cresciuta perché la città attrae popolazione. C’è anche un’attrazione dalla provincia e da fuori di giovani che vengono per studiare e lavorare, perché Bergamo è questo (la disoccupazione maschile oggi è al 2%, un po’ più alta quella femminile). Il potenziale della città non è espresso del tutto, ma certamente lo è molto di più che in passato.
Bergamo, insieme a Brescia, è Capitale della Cultura 2023 fino a fine anno, quando il testimone passerà a Pesaro e, quindi, ad Agrigento. C’era qualcosa che poteva andare meglio rispetto alle aspettative?
Onestamente no. Siamo molto soddisfatti dei risultati, mi sembra che le cose stiano andando bene. Si è innescato un meccanismo proattivo, per cui tantissimi soggetti, dai mondi più diversificati tra impresa, terzo settore, fondazioni, hanno partecipato organizzando, proponendo, inventando manifestazioni e iniziative e facendo cose che non avevano mai fatto. Il rischio era che restasse un’iniziativa di due Comuni che avevano voglia di dialogare e collaborare, ma è diventato un progetto che sta costruendo le condizioni per cui questa alleanza con Brescia diventi un orizzonte di lungo periodo. Altrettanto importante, mi sembra che anche i cittadini abbiano accolto la sfida di essere protagonisti e non soltanto spettatori, rendendo fin qui un successo ogni iniziativa. Terza cosa, il turismo ha risposto in modo importante con +30% di pernottamenti e, lo dicevo prima, +65% di presenze rispetto allo scorso anno.
I suoi 10 anni di mandato hanno anche compreso l’inserimento delle Mura Veneziane nel Patrimonio Unesco. Sono anche aumentate le preoccupazioni per un rischio mercificazione di Città Alta, tra Airbnb e un commercio sempre più rivolto a un’utenza turistica. Quali e quanti “pegni” sono pagabili? Quale strategia per Città Alta?
C’è un tema di accesso a Città Alta e di frequentazione di luoghi in cui qualche pegno si può pagare. Condividere la bellezza mi sembra un piccolo fastidio. Abbiamo fatto e stiamo facendo scelte coraggiose limitando il traffico veicolare privato, potenziando il servizio pubblico e invogliando le persone a salire a piedi o in bicicletta, e pazienza per chi ricorda con nostalgia il tempo in cui si sentiva il rumore dei passi, Città Alta non è di proprietà dei residenti. La sostituzione della residenza con l’affitto breve e la trasformazione della rete commerciale sono invece aspetti più preoccupanti e collegati, perché se viene meno un presidio significativo di persone che vivono, prende piede un’offerta commerciale orientata alla domanda turistica. Noi siamo riusciti a incidere sulla seconda, ma non sulla prima. Alcuni anni fa ci siamo dati un regolamento sfruttando, tra le primissime città in Italia, solo dopo Firenze, una disposizione che consente ai sindaci di selezionare le merceologie nelle aree ad alto valore monumentale, in questo caso il perimetro delle Mura. Il provvedimento non era retroattivo, ma abbiamo evitato un’ulteriore grave trasformazione del tessuto commerciale. Sulla residenza siamo invece totalmente disarmati. I sindaci non hanno strumenti per impedire l’affitto ai turisti, che, attraverso le piattaforme, dà pochi problemi e soldi certi. Abbiamo cercato in ogni modo di spiegare ai legislatori, regionale e nazionale, che era necessario – e lo è sempre di più perché il fenomeno cresce – dare ai sindaci strumenti regolatori, ma non siamo riusciti a farlo, nemmeno quando al Governo vi era il centrosinistra, per la verità. Il topolino partorito, a luglio dell’anno scorso, è stata una nuova norma per Venezia, l’unica città in Italia con la facoltà di darsi un regolamento di questo tipo, non estensibile alle altre. E per il Governo di oggi l’unica risposta è quella della sacralità della proprietà privata. Tutte le più importanti città turistiche d’Europa hanno norme, New York recentemente se n’è data una perfino eccessiva, che impedisce l’affitto di appartamenti in cui non risieda il proprietario. Io credo basterebbe poter fare un po’ di zonizzazione, fissando un tetto in Città Alta e liberando la possibilità di trasformazione in altri quartieri. Perché il vero problema sta qui: se viene meno la residenza cambia la natura dei luoghi e anche il turista ha meno interesse a visitare un luogo finto.
Il nuovo PGT è stato adottato questa settimana, a meno di 15 anni dall’ultimo. Perché era necessario? Quali nodi affronta per quale Bergamo fra (almeno) 10 anni?
Il piano era datato, pensato in anni pre-crisi con una prospettiva di crescita dimensionale totalmente irreale: prevedeva una Bergamo da 150.000 abitanti, con volumetrie esagerate, ambiti di trasformazione, prestazioni pubbliche sovrabbondanti. C’erano anche intuizioni, come l’idea della cintura verde a sud della città, non realizzata. Questo piano è concreto, fattibile, sgonfia questa previsione e proietta la città verso il mantenimento dei valori numerici, richiedendole, in declino demografico, di continuare a essere attrattiva, primo criterio del PGT. Oggi non è più sufficiente attrarre per ragioni di lavoro, bisogna offrire una qualità urbana elevata ed essere accessibili, per cui anche l’accessibilità – ferroviaria e non – è un tema su cui abbiamo molto lavorato. E c’è anche una domanda di mobilità sostenibile che va assecondata e tradotta in progetti concreti. Bisogna lavorare per una qualità della vita in senso più “olistico”, che è condizione perché la città mantenga la sua attrattività. Il secondo criterio è la sostenibilità, che si traduce in scelte molto pratiche: una riduzione di 1.150.000 mc di edificabilità, una restituzione all’agricoltura nel perimetro urbano di 800.000 mq precedentemente destinati all’edificazione. C’è una previsione di ampliamento del Parco dei Colli di 3,5 Kmq, alla luce della quale, dopo i passaggi con la Regione Lombardia, avremo fino al 50% della superficie urbana destinata a verde vincolato, parchi e verde urbano, che non credo molte città in Italia possano permettersi. Abbiamo la fortuna di essere parte del Parco dei Colli dagli anni settanta, un’ampia porzione della città è già oggi verde protetto che andiamo ad estendere soprattutto per quello che riguarda il verde residuo a sud della città. Il terzo criterio è quello dell’inclusione, correlato all’attrattività. Dobbiamo rafforzare la rete delle relazioni sociali in presenza di un corpo sociale più frammentato, perché le famiglie nel frattempo sono molto più piccole: il 70% è composto da una persona o due. Il rischio molto forte è quello di una città di gente sola. Bisogna lavorare sulla dimensione di comunità scommettendo sui quartieri e sottolineando la centralità delle funzioni pubbliche, quella scolastica innanzitutto, ma anche dei luoghi che attivano una dimensione comunitaria, come gli oratori o i luoghi in cui le persone s’incontrano per ridurre l’isolamento. Altro grande tema per il futuro è quello della casa, perché più le città hanno successo più diventano inaccessibili per il ceto medio o per una popolazione che non ha grandi capacità di spesa.
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Bergamo , lombardia , recupero , rigenerazione urbana , turismo
Last modified: 18 Ottobre 2023