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Manuel OraziWritten by: Reviews

Quei “monumenti fragili” di Aldo van Eyck che richiedono attenzione

Due pubblicazioni richiamano l’eredità e l’attualità del maestro olandese

 

Francis Strauven (classe 1942) è il decano di storia dell’architettura belga. Per molti anni ha insegnato all’Università di Ghent. In italiano è uscito un suo lungo saggio sul Belgio fra le due guerre pubblicato su “Rassegna” n. 34 nel 1988. Da quando è in pensione vive a Winksele, nei pressi di Lovanio. Nella sua carriera si è occupato dell’opera di Aldo van Eyck (1918-99) che ha ascoltato da studente in varie conferenze, lo ha intervistato per la prima volta nel 1967 e poi frequentato regolarmente fino a pubblicare una monografia (Aldo van Eyck: The Shape of Relativity, Architectura & Natura 1998) uscita un anno prima della scomparsa dell’architetto olandese. Lo storico belga ha inoltre curato tutti gli scritti di van Eyck (Writings, Sun 2006), scovando fra l’altro un suo libro inedito del 1962, The Child, the City and the Artist.

L’ultimo studio di Strauven è dedicato a un progetto particolare, una chiesa cattolica costruita da Van Eyck nel 1969 nei pressi dell’Aia (Pastoor van Ars Church The Hague. A Timeless Sacral Space, Peinture Fraiche 2023, pp. 224, euro 29,8), ultimo atto di una lunga fedeltà scientifica. Il volume in realtà esplora tutti gli ambiti del lavoro dell’architetto, dalla sua formazione giovanile, alla sua militanza nel Team 10, fino alla sua ricezione: una vera e propria biografia intellettuale. Sebbene abbia al centro dell’indagine la chiesa [nell’immagine di copertina, in sezione], i rimandi alle altre opere sono numerosissimi. «Aldo non era credente, ma non era nemmeno ostile alla religione. Coltivava una sua forma di spiritualità, per cui quando gli fu chiesto di progettare questa chiesa ne fu felice e prese il progetto estremamente sul serio, cercando di identificarsi con i futuri utenti come aveva e avrebbe sempre fatto in seguito, vale a dire praticando l’empatia».

I numerosi schizzi testimoniano questo lavoro paziente. La chiesa secondo Strauven è fra i massimi capolavori del moderno insieme con Notre Dame du Haut a Ronchamp di Le Corbusier, il quale del resto era convinto che l’assenza di fede religiosa non significasse il vuoto spirituale. Van Eyck era molto sensibile alla poesia: anche suo padre e suo fratello del resto erano poeti e, secondo Strauven, lo è stato egli stesso esprimendosi però sul piano delle forme spaziali. In altre parole credeva nell’autonomia del linguaggio architettonico in ragione della sua formazione poetica.

Van Eyck aveva realizzato soprattutto strutture per l’infanzia come scuole e i celebri playground, temi correlati e molto sentiti in Olanda che è la patria del massimo studioso del gioco, lo Johan Huizinga di Homo ludens (1938), così come il situazionista Constant autore di “New Babylon”, nonché il paese dove ha attecchito la filosofia pedagogica di Maria Montessori, la quale non per caso trascorse i suoi ultimi anni a Noordwijk. Van Eyck progettò la chiesa negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, avendo così più stimoli a reinventarne la tipologia. Per questo studiò molto le basiliche paleocristiane, in particolare la loro spazialità, dettata dalla necessità di una certa maniera di attraversamento, secondo le modalità della cosiddetta via sacra. Le fonti d’ispirazione però furono soprattutto artistiche: da un lato la pittura di Piet Mondrian per i percorsi, dall’altro la scultura di Constantin Brancusi, che conobbe personalmente e visitò in più di un’occasione nel suo atelier parigino ammirandone le forme geometriche pure, estremamente semplici. L’affinità con Brancusi è riscontrabile soprattutto nei monumentali lucernai circolari.

Un’ulteriore affinità era testimoniata dall’interesse verso l’arte primitiva: van Eyck possedeva una collezione di arte tribale, che Picasso e le avanguardie avevano già studiato in precedenza, ma il suo rinnovato interesse verso il primitivo era condiviso ad esempio da Sigfried Giedion e sua moglie Carola Welcker, con cui si scambiarono molte lettere a riguardo. Il primitivo aiutava van Eyck nella sua ricerca di una dimensione antropologica dell’abitare, motivo per cui aveva studiato così a fondo le casbah africane. Nonostante l’architetto olandese fosse critico contro il funzionalismo, era però molto legato alla tradizione del moderno e, anzi, molto aggressivo con chi cercava di allontanarsene o la ignorava come Aldo Rossi, “the fake Aldo”, come lo chiamava platealmente.

Oggi che il neobrutalismo, cui l’opera di van Eyck è accomunata come un po’ tutto il lavoro del Team 10, è a rischio di demolizione o manomissione, come nel caso del suo ultimo edificio comunale Tripolis (1994) ristrutturato da Mvrdv ad Amsterdam, vanno salutati con grande favore libri come questo e anche quello di Kersten Geers e Jelena Pančevak, Aldo & Hannie van Eyck. Excess of Architecture (Walther und Franz König 2022, pp. 160, euro 39,80, fotografie di Bas Princen), parte di una collana “Everything” nata dal loro atelier tenuto all’Accademia di architettura di Mendrisio. «L’apparente minimale chiesa cattolica dell’Aja è un repertorio di figure monocrome di cemento che servono come sfondo per l’attrezzatura religiosa… Van Eyck è un micro manager, e accumula tropi formali, costantemente testando i limiti di ciò che chiama “interiorizzazione” – una capacità psicologica degli abitanti di interiorizzare il mondo esterno». Colpisce infatti lo scarto tra la complessità interna e la scarna sobrietà esterna: ad esempio, la chiesa è praticamente priva di facciate. Molto interessanti anche le considerazioni di Geers e Pančevak sui rapporti con il giovane Rem Koolhaas – che da bambino ha frequentato una scuola montessoriana e in seguito è stato spinto proprio da van Eyck ad andare a studiare a Londra -, sulla critica della partecipazione. La coincidenza del tutto fortuita di queste due pubblicazioni e le relative campagne fotografiche lasciano ben sperare per il futuro dell’architettura di van Eyck che, secondo Strauwen, è composta soprattutto da “monumenti fragili”.

Autore

  • Manuel Orazi

    Lavora presso la casa editrice Quodlibet di Macerata, dove si occupa di alcune collane di architettura e urbanistica e dell'ufficio stampa. È inoltre docente presso l'Accademia di Architettura di Mendrisio e collaboratore dei periodici "Il Foglio", "Domus", "Log". Nel 2021 ha curato la mostra "Carlo Aymonino. Fedeltà al tradimento" (catalogo Electa) presso la Triennale di Milano e il volume di Rem Koolhaas, Testi sulla (non più) città (Quodlibet).

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Last modified: 19 Settembre 2023