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Michele RodaWritten by: Professione e Formazione

Racconti piccoli e storie grandi: un premio tra retoriche e tradizioni

Triennale e Maxxi celebrano l’architettura italiana con la 4° edizione dei riconoscimenti all’opera e alla carriera

 

MILANO. C’è tutta l’architettura italiana, e pure le sue retoriche. Il riconoscimento congiunto delle due istituzioni milanese e romana mette in mostra (piccola esposizione aperta in Triennale fino al 24 settembre, ingresso libero) la summa di temi e tendenze contemporanee, con l’ambizione, pare ben riposta anche se in attesa di conferma della partnership, di essere il vero “Premio” all’architettura italiana. Ci sono i luoghi fragili, le forme pure, le facciate colorate, i lavori ibridi tra architettura e installazione artistica e la grande tradizione della sensibilità al contesto e al territorio. E le narrazioni, perché – anche qui – sembra vincere il concetto, più ancora degli esiti formali.

 

Giurie e premiati

Due le categorie: miglior edificio e under 35. Nella prima, 30 candidature e 10 finalisti, nella seconda, 17 e 5. La giuria rispetta l’equilibrio tra Triennale e Maxxi (2+2) ed è composta da: Stefano Boeri (presidente) e Nina Bassoli, Lorenza Baroncelli e Pippo Ciorra. Con loro Matteo Scagnol (MoDusArchitects), Valentina Merz e Lara Monacelli Bani (Atelier Remoto), Iñaqui Carnicero (Rica Studio) e Giancarlo Mazzanti (El Equipo Mazzanti)

Due premiati ex aequo per la categoria principale: Carlo Atzeni, Maurizio Manias, Silvia Mocci, Franceschino Serra con il complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara a Sini (Oristano, 2021); ElasticoFarm (Stefano Pujatti) con il nuovo complesso dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare (INFN) S-LAB a Torino (2020).

A questi si aggiunge una menzione d’onore per uno dei progetti più importanti e discussi degli ultimi anni come quello di Labics con il completamento delle aree museali di Palazzo dei Diamanti a Ferrara (2022).

Nella categoria under 35 palma a Studio Ossidiana con il progetto Art Pavillion M. ad Almere (Paesi Bassi, 2022). Due menzioni all’installazione mobile Paraphernalia, di studio (ab)Normal, e a “More with Less”, intervento di riqualificazione urbana per piazza Santa Maria Paganica nel centro storico dell’Aquila, firmato dal collettivo Orizzontale.

 

Parole, parole, parole

I padroni di casa (Boeri e Bassoli per Triennale) e gli ospiti (Giuli, Ciorra e Baroncelli, che proprio da Triennale si è da poco trasferita a Roma, per il Maxxi) si soffermano sul senso del Premio. “È davvero il premio italiano per l’architettura”, dice Boeri. Ciorra concorda: “Anche se non sono un grande fan di queste iniziative devo dirlo: qui si sta facendo un lavoro importante”. Alessandro Giuli, presidente di Fondazione Maxxi, parla dell’obiettivo comune di “Costruire un sapere condiviso”. Che si raggiunge, spiega Baroncelli, “Definendo nuovi modi di vivere nello spazio”. All’orizzonte di queste dichiarazioni, il rinnovo della collaborazione per il premio che potrebbe anche coinvolgere partner ulteriori.

Con le motivazioni della giuria, i Premi propongono una precisa narrazione dello stato dell’arte dell’architettura contemporanea italiana. Dalla Sardegna viene una lezione su un possibile discreto modo di operare nelle aree interne della fragilità e dell’abbandono, opera di resistenza civile in zone periferiche e in ambienti di frontiera. Il bianchissimo ed elegante complesso parrocchiale di Santa Chiara a Sini agisce “Con rigore formale e consapevolezza contestuale, cogliendo l’occasione per ricucire una serie di elementi spaziali, espressivi e relazionali del tessuto centrale. Interpretando elementi tipici dell’edilizia spontanea locale e di un’architettura sobria della koiné mediterranea”, il progetto si propone come tassello architettonico che ambisce a diventare rinnovato punto di riferimento per la comunità.

Su un fronte opposto (colore contro bianco, sperimentazione contro minimalismo, ostentata semplicità: “Siamo stupiti – dice divertito Stefano Pujatti – perché questo è il progetto più semplice che abbiamo fatto nella nostra vita”), l’INFN di Torino viene scelto per il suo essere esito di una forte ricerca applicata ad una tipologia edilizia generica perché “Trasforma la tecnologia tradizionale per gli edifici produttivi, la prefabbricazione pesante in cemento armato, in un’occasione di sperimentazione a tutto campo nella sua relazione con il contesto, e nelle sue declinazioni ambientali, atmosferiche, percettive e paesaggistiche”.

Appare sempre un contesto complesso, ricco e stratificato all’interno del quale i progetti premiati si muovono.

Quello della menzione d’onore è addirittura emblematico e qui, a differenza degli altri lavori premiati, nuove costruzioni, ad essere sollecitata è la questione del restauro, dell’integrazione e dell’ibridazione (anche per ragioni di fruizione turistica) di un monumento rinascimentale come il ferrarese Palazzo Diamanti di Biagio Rossetti, “Esempio virtuoso d’intervento architettonico come strumento di rilettura e attualizzazione funzionale e culturale di un edificio storico di enorme valore. Il progetto merita il riconoscimento non solo per la sua qualità intrinseca ma anche per essersi affermato nonostante la presenza dei pregiudizi e resistenze pseudo-preservazioniste che ha dovuto affrontare”. Un’architettura politica che esplicita un messaggio di forza affermando con decisione il proprio ruolo trasformativo, anche in contesti burocratici e politici complessi: “E’ stata una corsa a ostacoli”, dicono i progettisti ritirando il riconoscimento.

Stesso suolo trasformativo anche di ambienti e paesaggi emerge nel premio under 35, per il quale però bisogna traslocare (non a caso) nel Nord Europa, in Olanda. L’Art Pavillion M. (un museo di land art dedicato alle acque, frutto di un concorso, vinto dagli “italiani all’estero” di Studio Ossidiana) di Almere “Coniuga in un unico gesto sintetico le principali caratteristiche del lavoro dello studio, avviato con grande chiarezza seppur da pochi anni, tra ricerca formale e indagine sensibile sui temi ambientali e di relazione interspecie dell’architettura e del paesaggio”.

Quattro premi dunque a costruire un palinsesto convincente e non banale. Dove emerge certamente la forza del progetto architettonico ma anche la capacità di narrarsi nelle implicazioni e nelle connessioni che genera. In cui prevalgono tipologie “speciali” (il centro civico religioso, il luogo di lavoro e di ricerca, i musei, nuovi e storici, le installazioni) a discapito di quell’architettura dell’abitare e della casa – su cui, lungo i limiti tra progetto e costruzione, anche con le “costrizioni” di normative spesso troppo impattanti e limitanti – gli architetti italiani si stanno confrontando con tanta intensità in questi anni.

 

Aimaro Isola: una carriera che guarda al futuro

Se i premi sono una (bella ed equilibrata) sfilata di opere di qualità, quello alla carriera, assegnato ad Aimaro Isola è un distillato di cultura, saggezza ed emozioni. Boeri lo chiama sul palco raccontando un episodio che collega storia e luogo: “Nel concorso internazionale del 1988 per il masterplan Bicocca, poi vinto da Vittorio Gregotti, assistevo Bernardo Secchi, presidente di commissione. Nell’ultima, difficile, riunione, Manfredo Tafuri si alzò e disse: Qui ci sono tanti bravi imbianchini ma solo due grandi pittori: Roberto Gabetti e Aimaro Isola”. Quel progetto per Milano, Isola (nome completo Aimaro Oreglia d’Isola, anno di nascita 1928) lo ricorda bene: “Forse avevamo un po’ esagerato con quella proposta. Il giardino e il verde diventavano i veri protagonisti della trasformazione urbana”.

Troppo per gli anni ottanta?
Quando, sempre qui a Milano, abbiamo messo gli alberi sull’edificio ENI a San Donato, molti hanno riso e ci hanno preso in giro.

E invece quei semi sembrano essere germogliati in una rinnovata sensibilità.
Abbiamo passato la gioventù a parlare di contesto. Oggi il contesto è il testo, il problema vero dell’architettura è ritrovare e ricostruire gli spazi esterni. Dove natura, verde e paesaggio possono rendere migliori e più attraenti i luoghi che abitiamo.

Un nuovo modo di guardare a quel territorio che ha rappresentato il campo di battaglia per voi e per tanti colleghi della vostra generazione?
Effettivamente oggi c’è una forte attenzione che potremmo definire territorialista. Che ha superato un’idea romantica che si aveva della natura. I paradigmi sono cambiati, sono diverse le situazioni che l’architettura deve affrontare. E quindi servono sforzi e ottiche nuove.

Anche andando oltre la disciplina?
Sicuramente. La nostra generazione parlava d’interdisciplinarietà. Adesso forse è necessario andare oltre la disciplina stessa. Il progetto di trasformazione dello spazio non è solo dell’architetto e dell’architettura. Ma di tutti coloro che lavorano intorno ad esso, con qualunque ruolo.

Architetti e non.
Mi piace citare un poeta come Eugenio Montale. Nella sua Felicità raggiunta, si cammina (del 1925, contenuta in Ossi di Seppia) i versi finali sono:
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
Penso che quel bambino siamo noi e il pallone che sfugge tra gli edifici è il nostro pianeta. Stiamo rischiando di perdere il mondo, dobbiamo agire di conseguenza.

Proprio qui alla Triennale, nel 1981, Guido Canella vi affidò una mostra dedicata alla Conoscenza. La gemella, sull’Idea, era curata da Aldo Rossi.
La Triennale è casa nostra, uno dei motivi per il quale siamo diventati architetti. In quel lavoro presentammo un’installazione teatrale complessa che voleva comunicare l’eclettismo della conoscenza. In panorami nuovi, non ci sono più regole precise, ma continue ridefinizioni delle posizioni. Vale anche oggi.

Con i rischi che questo approccio implica.
Certamente, l’architettura contemporanea per tanti versi mi sembra evaporare nell’elettronica, una sorta di processo di gassificazione che rischia di sfociare anche nell’intelligenza artificiale. Serve reagire a questo. I progetti di questo premio sono tasselli importanti di una ricerca diversa.

Un premio alla carriera, che cosa significa?
Sono stupito ed entusiasta per questo riconoscimento. Premia un intreccio inestricabile tra opera e vita che qualifica ciascuno di noi. I nostri progetti hanno sempre un legame con ciò che abbiamo vissuto. Per questo è motivo di grande soddisfazione, anche nella consapevolezza che io sono vecchio ma ci sono persone che stanno dando continuità allo studio e alla nostra ricerca.

 

 

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 18 Luglio 2023