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Cristina FiordimelaWritten by: Interviste

Paolo Portoghesi: prendiamoci cura della Terra

Paolo Portoghesi: prendiamoci cura della Terra

A proposito di geo-architettura: nel suo regno di Calcata, uno degli ultimi incontri con l’architetto recentemente scomparso

 

CALCATA (VITERBO). La strada provinciale 17 ha lasciato alle spalle i segni antropici della valle del Treja e assume un andamento curvilineo che rallenta il dispiegarsi del parco naturale indugiando nel bosco: l’arrivo al Giardino letterario Portoghesi-Massobrio preannuncia la “Poesia della curva” nel colpo d’occhio dei muri tufacei che dominano il borgo storico e che s’intravedono virando a gomito tra Calcata Vecchia e Calcata Nuova, tra il passato-presente dei ruderi rupestri amorevolmente curati e abitati, ancora con spirito beat, a picco di un paesaggio preistorico e, alle spalle, la presenza di un aggregato disorganico dove l’architettura, sparita e annientata dalla speculazione edilizia, riappare come fulcro riequilibrante in forma di corolla stellare fortificata con la chiesa di San Cornelio e San Cipriano, progettata da Paolo Portoghesi e Giovanna Massobrio, e completata nel 2009. Nell’accostamento dei blocchi di tufo con il verde-azzurro di cancelli, edicole e leggii che sbucano come inserti contemporaneamente vecchi e nuovi da una natura simultaneamente selvatica e ordinata, il Giardino letterario si profila come un confine di relazione concreta, di avvicinamento e dispiegamento del mondo circostante, come scrive Christian Norberg-Schulz nel 1982 a proposito della sua architettura. Con impeccabile aplomb, nello studiolo, Portoghesi dà inizio alla nostra conversazione sul rapporto tra l’eredità dell’architettura degli anni settanta, la crisi climatica e il suo insegnamento di geo-architettura.

 

La geo-architettura è ancora una proposta insita nel cambiamento climatico attuale?

Noi dobbiamo partire dall’amministrazione della Terra, che è il patrimonio comune e che richiede una quantità enorme di sacrifici. Sto insegnando geo-architettura che è il contrario dell’architettura: l’architettura non si potrà più fare, cioè ci sarà un’architettura della “difesa”, che non potrà sfoggiare capacità fantastiche, però forse ritroverà delle qualità primarie. Se si cammina per le strade di Siena, per esempio, ci si accorge che in fondo non c’è quasi niente: ci sono delle mura che riparano un po’ di spazio e delle vie molto strette. Non dico che arriveremo a questo, però certamente l’architettura deve cambiare aspetto. Il che non implica che si debbano distruggere le lezioni alte del passato.

 

Come s’insegna la geo-architettura?

È dal 2016 che insegno questa materia, anche se ancora non esiste come disciplina. La didattica si basa su una serie di constatazioni che portano a rivedere il senso dell’architettura per non essere complici della distruzione dell’ambiente. La maggior parte delle architetture che sono state costruite negli ultimi vent’anni sono costosissime per l’ambiente, spesso utilizzano materiali che provengono da altre parti del mondo e che compiono lunghi viaggi. Agli studenti consiglio di ragionare basandosi sul carbonio: ogni cosa che noi esseri umani compiamo implica un aumento di anidride carbonica. L’unica cosa che compensa questa produzione di CO2 è piantare un albero. E oggi anche l’architettura può compensare queste emissioni. Il passaggio principale è essere co-scienti e coltivare la consapevolezza di quanto può nuocere alla qualità del mondo in cui viviamo ogni cosa che progettiamo. Perché, anche se la comunità scientifica è molto prudente, la Terra tra 100-120 anni potrebbe non essere più abitabile. Ritengo che i requisiti su cui si basa la geo-architettura oggi siano diventati urgenti, pertanto consiglio agli studenti di tenere sempre presenti almeno questi principi: imparare dalla natura che ha il risparmio nel sangue, si nutre della morte degli animali, senza sprechi, in economia circolare; imparare dalla storia per capire come è cambiato il rapporto dell’essere umano con l’architettura; non rinunciare alla ricerca della coralità, che è un tema dell’architettura moderna, come vita insieme agli altri senza eccessiva concorrenza; dedicarsi all’innovazione come fatto positivo che eccita la mente; tendere alla semplicità.

 

L’abitante è parte attiva nella messa in atto della geo-architettura?

Calcata, per esempio. L’abitato era abbandonato e riabitarlo è stato un moto di sollevazione, di disobbedienza civile. La gente che è venuta ad abitare qui lo ha fatto perché gli piaceva il posto, e ciò ha implicato anche che lo rispettasse. Qui a Calcata i cittadini sono arrivati per amore della natura, del mistero. È un fenomeno che ha già un suo equilibrio perché, essendo innamorati della qualità ambientale, chi la offende è un autolesionista. Per quanto riguarda invece la costruzione ex novo non c’è però nessuna qualità, non c’è mai stata una capacità di apprendimento artigianale e neanche moderna, sono stati adottati degli standard provenienti dal consumo triste e burocratico di modelli che provengono da altro.

 

La geo-architettura, a partire da Le Corbusier, si radica nel Movimento moderno…

Le Corbusier era un grande poeta. Nella sua architettura c’è anche la profezia di una geo-architettura, parola che egli ha coniato anche se oggi ha un significato più espanso poiché riguarda la Terra nella sua totalità, è un ambiente. L’utopia moderna è nella convinzione di poter creare con l’architettura delle condizioni sociali particolari. E, in un certo senso, di poter correggere gli errori della società attraverso l’architettura. Che di per sé è un compito affascinante, iniziato all’inizio del secolo scorso con gli artisti che disegnavano e vivevano i quartieri a modo loro, sperando che la gente capisse e si allineasse. Le utopie sono sempre molto belle perché sono uno stimolo all’innovazione. Ci sono poi degli aspetti che si scontrano con il tempo. Era imprevedibile allora che ci fosse una crisi energetica come quella odierna. I progettisti di allora avevano tutte le ragioni per proporre queste architetture. Oggi c’è la questione oggettiva di questo patrimonio che dev’essere amministrato.

 

In che modo s’inscrive nella geo-architettura l’eredità degli edifici di matrice moderna degli anni settanta, di cui è costellata anche l’Etruria?

Negli anni settanta, gli architetti hanno progettato molto generosamente delle residenze di edilizia pubblica di gran lusso, talvolta senza fare i conti con i costi di manutenzione, che è uno degli aspetti fondamentali dell’architettura. Se i progettisti di allora non hanno fatto i conti con l’economia dell’architettura nel tempo, non glielo si può rimproverare, anzi si apprezza che siano riusciti comunque a fare della buona architettura. E la buona architettura ha sempre diritto di esistenza. Il futuro è fare architettura con i materiali del presente. Non possiamo rifiutare l’architettura moderna, perché sarebbe un modo per tornare alle palafitte, ma nemmeno accettarla passivamente. La sopravvivenza è un fatto utile, però non deve costare troppo. Costare nel senso non pecuniario, ma di sacrificio, di sostenibilità. Per proteggere la cultura in un paese come l’Italia che ha nella cultura la sua ricchezza, l’impegno dev’essere realistico. Partiamo dal principio dei beni culturali: queste architetture sono dei beni culturali, i quali sono caratterizzati da una logica di conservazione ma anche di uso. La conservazione in Italia ha sempre avuto da parte del Ministero della Cultura dei bilanci irrisori rispetto alle esigenze. Mi sono sempre battuto affinché si creasse un elenco di edifici contemporanei da conservare. L’uso di questi edifici potrebbe diventare un’interpretazione creativa, un centro turistico efficiente per tutta l’Etruria, compatibile con un futuro culturale.

 

Infine, una testimonianza a proposito dell’insegnamento e del suo impegno in università.

Ho combattuto a Milano seguendo il suggerimento degli studenti, con gli studenti, basandoci sulla ricerca: non bisogna insegnare dall’alto quello che si sa, ma piuttosto mettere a disposizione ciò che si sa in forme accessibili e soprattutto cercare insieme. Ciò dà allo studente un senso di responsabilità, e al docente il valore di essere all’interno di una collaborazione senza riserve. Purtroppo questo sistema è stato chiuso dalla burocrazia e non si è mai riaperto. Noi professori abbiamo svolto una funzione di ascolto. Il bisogno di una didattica diversa proveniva dagli studenti. C’era anche una ragione politica: gli studenti non volevano più meritocrazia, mentre oggi, purtroppo, siamo tornati in pieno al culto della meritocrazia. Educare tutti considerandoli uguali è un problema serio, non tutti assorbono lo stesso insegnamento ma tutti ricevono la medesima cosa. Era sbagliato pensare che i tempi fossero maturi per una rivoluzione sociale del tipo di quella argomentata da Marx: gli operai vedevano gli studenti come signorini. È stata un po’ una mascherata, per alcuni aspetti una conquista, e abbiamo dovuto subire le conseguenze di entrambe le cose, ma forse più della prima.

 

Immagine di copertina: Paolo Portoghesi, Terme di Musignano (Varese), 1993 (© Archivio Fondazione Aldo Pio Favini e Anna Gatta)

Autore

  • Cristina Fiordimela

    Architetta museografa, docente al Politecnico di Milano. Insegna architettura degli interni, exhibition design e si relaziona con le arti contemporanee (commons), di cui scrive su riviste specializzate italiane e internazionali. La museografia è il filo rosso che attraversa sia l’impegno teorico, sia la progettazione e la messa in opera di allestimenti che riguardano le intersezioni sensibili all’arte, alla scienza e alla filosofia, in sinergia con enti universitari, musei e istituti di ricerca. L’indagine su media art come dispositivi di produzione artistica in commoning è l’ambito di studio e di sperimentazione delle attività più recenti, da cui prende corpo con Freddy Paul Grunert, Lepetitemasculin, dialogo nello spazio perso, iniziato al Lake County, San Francisco

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Last modified: 14 Giugno 2023