Visit Sponsor

Valerio FranzoneWritten by: Progetti

New York: il Richard Gilder Center non è una caverna

New York: il Richard Gilder Center non è una caverna

Visita all’ampliamento dell’American Museum of Natural History, inaugurato dopo 9 anni su progetto di Studio Gang

 

NEW YORK. Il 4 maggio, a 9 anni dall’annuncio, si è inaugurato il Richard Gilder Center for Science, Education, and Innovation, l’estensione di circa 21.300 mq progettata da Studio Gang per l’American Museum of Natural History, che ha avuto un costo di costruzione di 465 milioni di dollari. Il progetto si sviluppa su sei piani fuori terra, di cui quattro accessibili al pubblico, e uno interrato, e offre numerose connessioni tra i diversi edifici che costituiscono il campus museale. Inoltre rappresenta un nuovo ingresso al museo, privo di barriere architettoniche e opposto a quello storico e classicista affacciato su Central Park con le sue imponenti scale e colonne che per decenni hanno fatto da quinte alla controversa statua di Theodore Roosevelt (rimossa due anni fa a seguito della crescente attenzione riguardo i temi dell’uguaglianza e dell’inclusione in quanto raffigurava il presidente americano a cavallo, affiancato da un nativo americano da un lato e un afro-americano dall’altro, entrambi a piedi).

 

Naturale vs artificiale

Il nuovo edificio dell’American Museum of Natural History, oltre ad ampliare gli spazi museali e ad assolvere a una serie di questioni funzionali e distributive, ha infatti anche il chiaro scopo di ripensare l’immagine del museo presentando una nuova identità per l’istituzione. Esattamente sul lato opposto all’ingresso storico del museo, un complesso formato da quattro isolati, si trova il Richard Gilder Center, un edificio con una facciata sinuosa formata da una serie di fasce di pietra e di vuoti vetrati che si alternano orizzontalmente richiamando il fenomeno della stratificazione geologica e cercando di dare un messaggio chiaro: questo è un museo di storia naturale. La parte in pietra è realizzata con pannelli di granito rosa Milford del Massachussets, stesso materiale usato per la facciata principale su Central Park. Le ampie vetrate, invece, sono realizzate in fritted glass e sono studiate per evitare che gli uccelli ci si schiantino contro, un fenomeno tanto frequente quanto allarmante a New York come in tutte le città ricche di facciate in vetro.

L’ingresso è un ampio arco “naturale”, anch’esso chiuso da una vetrata in fritted glass, oltre il quale si apre un’enorme “caverna” quasi una Endless House alla scala di un museo, uno dei primi riferimenti che può venire in mente appena si entra nel Kenneth C. Griffin Exploration Atrium: un grande vuoto di 5 piani con ampi lucernari, su cui si affacciano varchi e passaggi aerei dalle forme sinuose, il cui colore e texture richiamano quelle dei canyon scavati dal vento e dall’acqua nel sud ovest degli Stati Uniti. Chiaro riferimento del progetto, come la stratificazione geologica della facciata, che palesa questo gioco di rimandi tra l’organico e l’artificiale.

Altro fenomeno interessante, ma non di natura geologica: se la facciata e l’atrio sono volumetricamente collegati da un ampio arco “naturale”, non c’è invece continuità materiale e cromatica tra le superfici esterne e quelle interne. Infatti, se la facciata è realizzata in liscio granito rosa, la vetrata che chiude l’arco rappresenta un limite oltre il quale il materiale cambia e l’atrio è realizzato con cemento a spruzzo dalla granatura molto grossa. L’uso del cemento a spruzzo ha garantito la morbidezza delle curvature delle superfici, la drastica riduzione dei tempi e dei costi di costruzione e l’assenza di linee di giuntura che si sarebbero avute con l’utilizzo di casseforme. Il caso vuole che la tecnica del cemento a spruzzo sia stata inventata dal tassidermista e inventore Carl Akeley, che tanto collaborò con il museo e per il quale realizzò tra l’altro quel diorama del gorilla che, tra gli architetti, fu reso celebre dalla copertina del numero 367 di Casabella dedicato al Radical Design.

 

Stratagemmi formali: non di solo atrio vive il museo

Al centro dell’atrio, una larga scala collegante il piano terra con il primo e grazie a gradoni-sedute, attraverso una consolidata strategia di koolhassiana memoria, incentiva un uso meno convenzionale dello spazio museale offrendo al pubblico la possibilità di una sosta per riposarsi o per assistere ad eventuali spettacoli organizzati nell’atrio. Man mano che si continua a salire ai piani superiori si accede ai nuovi spazi espositivi e di studio, tra cui un insettario con farfalle vive e una nuova biblioteca, nonché alle numerose connessioni con gli altri padiglioni del museo, ma quello di cui ci si rende conto è che l’atrio con la sua affascinante facciata si riduce ad uno stratagemma spettacolare. Attraente finzione, quinta che nasconde una realtà diversa, l’atrio non mette in discussione una circolazione e una distribuzione ordinaria fatta da piani orizzontali e scale. Stratagemma formale e non programmatico, l’organicità del canyon è di facciata, senza altri rimandi alla sua fluidità spaziale o alle forze che l’hanno generato.

I tanti visitatori che lo ritraggono dimostrano comunque il successo che il museo, un’attrazione molto fotogenica, sta avendo tra il pubblico. Le varie questioni, che riguardano l’uso dei materiali e le geometrie degli spazi, rimangono tuttavia aperte.

Immagine di copertina: © Iwan Baan

 

La carta d’identità del progetto

Progetto architettonico: Studio Gang
Rappresentante per la proprietà: Zubatkin Owner Representative, LLC
Davis Brody Bond: architetto esecutivo
Exhibition design: Ralph Appelbaum Associates
Ingegneria strutturale, ingegneria acustica, consulente audio visual: Arup
Consulente meccanico, elettrico, idraulico, antincendio, facciata: Buro Happold
Ingegneria civile e geotecnica: Langan
Architetto paesaggista: Reed Hilderbrand
Segnaletica: Pentagram
Theater design: Tamschick Media + Space con Boris Micka Associates
Sostenibilità: Atelier Ten
Consulente illuminotecnica: Renfro Design Group
Construction manager: AECOM Tishman

 

Chi è la progettista

Jeanne Gang (1964) è fondatrice di Studio Gang, studio di architettura e urban design con sede a Chicago, New York, San Francisco e Parigi. Studio Gang ha realizzato progetti a diverse scale e di diverse tipologie, edifici culturali e per la comunità come le Chicago River Boathouses, il Writers Theatre e l’Arcus Center for Social Justice Leadership, torri come l’Aqua Tower e il Solar Carve. Ha in corso progetti nelle Americhe e in Europa, come l’Arkansas Museum of Fine Arts a Little Rock, la nuova ambasciata americana a Brasília e il nuovo centro europeo della University of Chicago a Parigi. Gang insegna alla Harvard Graduate School of Design e il suo lavoro è stato esposto al MAXXI, alla Biennale di Venezia e all’Art Institute of Chicago. MacArthur Fellow e membro eletto dell’American Academy of Arts and Sciences. Ha ricevuto il Cooper Hewitt National Design Award in Architecture ed è stata indicata dal “Time” come una delle persone più influenti al mondo.

 

Autore

  • Valerio Franzone

    Architetto, vive e lavora a New York. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca “Villard d’Honnecourt” International Doctorate in Architecture coordinato dall’Università IUAV di Venezia, e una Laurea in Architettura presso la Facoltà di Valle Giulia dell’Università La Sapienza. Nel 1998 ha cofondato “2A+P rivista di progettazione” e il gruppo 2A+P, nel 2005 lo studio associato 2A+P Architettura di cui è stato partner fino al 2008 e, nel 2012, Valerio Franzone Architetto. I suoi progetti sono stati premiati in concorsi (“6o Premio Artegiovane - Torino Incontra; “Idensitat Calaf / Manresa - 05 public call for project”; “Parco acquatico-sportivo Santa Chiara e opere per la mobilità sostenibile”), esposti in mostre (7°, 11°, e 14° Biennale di Architettura di Venezia) e pubblicati su riviste internazionali (“Domus”, “A10”, “Abitare”, “AD Architectural Design”).

    Visualizza tutti gli articoli

About Author

(Visited 1.166 times, 1 visits today)
Share

Tag


, ,
Last modified: 31 Maggio 2023