I giovani finalmente al centro in un allestimento rarefatto ma reticente per 9 azioni di riqualificazione in avvio, di cui al momento non si ha contezza
VENEZIA. Dov’è il “laboratorio del futuro” italiano? Sicuramente nel collettivo Fosbury Architecture e nei giovani architetti, nel loro lavoro alla costruzione di nuovi modi d’interpretare una professione in crisi che deve trovare rifondazione e nuovi significati. Un po’ meno in un Padiglione Italia che lascia gli interventi fuori dalla porta.
I giovani sono finalmente in prima linea. Il contesto in cui tutti i “nativi sostenibili”, così si definiscono i curatori, si trovano a operare li porta a modificare sul campo una professione che per l’architettura costruisce un futuro fatto di connessioni che richiedono reti transdisciplinari, competenze sempre più fluide e multidisciplinari e un nuovo modo di tessere e costruire relazioni. Innegabile pregio del Padiglione è l’avere riconosciuto il cambio di passo in corso, coinvolgendo circa 50 persone con età media di 33 anni.
Ma essere giovani per una Biennale non basta. Citando Aldous Huxley e il suo Mondo Nuovo, “Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri” sceglie di portare a Venezia nove interventi site-specific che, da nord a sud, stanno lavorando in modi e tempi diversi su altrettante aree in condizioni di fragilità. Vogliono essere l’inizio di un’«agenda incompleta di temi di ricerca per il contesto nazionale e per l’architettura». Tutti insieme costruiscono un grande progetto corale che guarda ai territori, affidato a progettisti quasi tutti al di fuori di circuiti consolidati, eccezione fatta per collettivo orizzontale (che espone anche alle Corderie nella mostra principale), Parasite 2.0 e Studio Ossidiana (parte nel 2021 di “How will we live together?” di Hashim Sarkis).
Il Padiglione Italia supporta, pregevolmente, l’innesco delle azioni di riqualificazione con parte dei fondi a disposizione (1,19 milioni, di cui 800.000 euro dal Ministero della Cultura). Tra Friuli Venezia Giulia e Sicilia, passando per Toscana e Sardegna, Puglia e Abruzzo, Calabria, Campania e Veneto, tutti i progetti, in corso, introducono interventi eterogenei in cui il manufatto costruito non è più un fine ultimo ma uno strumento, tra i tanti possibili, «per intervenire su quel tessuto di relazioni tra persone e luoghi che è alla base di ogni progetto». Anche la nozione di spazio si modifica, diventando «luogo fisico e simbolico, area geografica e dimensione astratta, sistema di riferimenti conosciuti e territorio di possibilità».
I laboratori del futuro sono quindi interventi eterogenei. I temi sono difficili e sfidanti, le scale piccole ma molto differenti, i processi attivati comportano la messa in campo di azioni materiali e immateriali, intervenendo sulle relazioni, tra gli attori coinvolti e il territorio. Supportati da incubatori tra cui Maxxi, Fai e Centro Pecci, e advisor provenienti da diversi campi delle industrie creative, disegnano un laboratorio fatto d’indagini sui rapporti tra le modifiche delle filiere alimentari e i territori (Cabras), riattivazioni con installazioni sonore e luminose di spazi sotterranei dismessi (Trieste), trasformazioni temporanee di tetti in spazi urbani (Taranto), pareti di chiese che diventano palestre di arrampicata (Marghera, Venezia), dispositivi spaziali per nuove forme di aggregazione all’aperto (Ieranto), interventi di recupero sociale e comunitario attraverso la predisposizione di leggeri spazi temporanei (Librino), più ampi e consolidati progetti di riattivazione culturale e territoriale (Belmonte Calabro, con Taranto unico progetto non innescato da Spaziale), belvedere digitali per mappare paesaggi e ragionare sui loro valori (Prato) e avvicinamenti a edifici incompiuti e abbandonati per avviare processi di significazione (Ripa Teatina).
Per alcuni sono poco significativi, troppo deboli e lontani dall’architettura; per altri, compreso chi scrive, è necessario invece sospendere il giudizio in attesa di risultati misurabili. C’è un cambiamento in atto e, non sostituendo la lente da cui si osserva, si rischia un errore di prospettiva. Il progetto ha infatti un programma che si compone di tre fasi, due concluse e una da avviare: l’attivazione e l’esposizione dei processi innescati e la creazione di un archivio-piattaforma permanente per “documentare attività locali”. Questa fase sarà cruciale nel dare conto d’impatti che renderanno i progetti fallimenti o la vera “accademia diffusa sul territorio nazionale” di auspicabili pratiche pilota, vitali e riproducibili.
La debolezza di un padiglione che invece scommette, vincendo, sulla rarefazione e sullo svuotamento del grande spazio delle Tese delle Vergini, è la comunicazione. Il visitatore è accolto, piacevolmente, da una prima manica buia e completamente vuota, dominata da un enorme schermo. I nove interventi sono collocati nella seconda, dove disegnano una geografia di stazioni attorno a cui è possibile muoversi. In uno spazio suggestivo, è tuttavia difficile avere reale contezza dei progetti, affidati da un allestimento che punta su evocazione e astrazione a video, suoni, coni di sale, sculture in terracotta, tende e tappeti, installazioni sonore, amuleti sospesi, macerie, vasi di terra, sistemi d’irrigazione e interattività digitale.
Nei testi si sente la mancanza di dati e informazioni che aiuterebbero a restituire la fisicità di azioni sui territori concrete prima che astratte: sarebbe stato utile, ad esempio, conoscere i criteri delle scelte dei progetti, la quota parte dei fondi destinata ad ognuno o il numero di persone e comunità coinvolte, i primi risultati ottenuti, eventuali superfici impegnate in quali parti dei territori, approfondire un complesso legame con i siti. Si sente anche la mancanza di fotografie e disegni, schemi, modelli, ove possibili. La vera comprensione dei progetti è difficile e la mancanza è ancora più importante considerando la risonanza del palcoscenico, che nei prossimi 6 mesi sarà aperto su un pubblico internazionale ed eterogeneo (nel 2021 i visitatori della 17° edizione sono stati quasi 300.000).
I processi e i progetti cambiano, le richieste che territori e comunità rivolgono anche agli architetti sono sempre più chiare e forti ed è un bene che la Biennale ne parli. Devono cambiare le risposte e le modalità, date da un’architettura il cui rinnovamento non può che essere affidato ai giovani, oggi giustamente al centro dell’attenzione. La strada è corretta, ma, al contrario dei curatori, siamo convinti che l’evoluzione non possa lasciare la disciplina fuori dalla porta, abbandonandone del tutto codici, linguaggi e strumenti. Il rischio è che l’auspicato cambiamento diventi una deposizione delle armi.
Immagine di copertina: © Fabio Oggero
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allestimenti , Biennale Venezia 2023 , rigenerazione urbana
Last modified: 31 Maggio 2023