Una mostra a Berlino racconta aspirazioni e conquiste dei designer d’oltrecortina e del loro mondo inaspettatamente libero e colorato
BERLINO. Nell’estate del 1967, sei anni dopo la costruzione del famigerato Muro che divise per quasi trent’anni la Germania (e il mondo) in due blocchi nemici, il filosofo tedesco Herbert Marcuse, in una conferenza alla Freie Universität di Berlino, definì “l’utopia” nient’altro che “una inculcazione di falsi bisogni materiali e spirituali, finalizzati alla conservazione delle vecchie strutture di potere e dei vecchi interessi”.
Cinquant’anni dopo un suo omologo polacco, Zygmut Bauman, scriveva nel celebre saggio intitolato “Retrotopia” del suo esatto inverso, “nostra recente attitudine a collocare nel tempo passato (non più nel futuro o in un luogo leggendario) l’immaginazione di una società migliore”, un sogno che cela in realtà una disperata domanda di futuro, di utopia appunto, di una società capace di riscoprire la prossimità e di tessere più umane relazioni sociali.
Tendenza retrotopista, nevrosi occidentale?
Qual è dunque il punto di vista della nuova, affascinante mostra berlinese sul design socialista negli anni della Guerra fredda? E di chi sarebbe la tendenza retrotopista in questione: è una nostra nevrosi, di noi che oggi guardiamo con nostalgia a un passato che nemmeno poi tanto, qui in Occidente, conosciamo, o dei sistemi storici che la mostra racconta?
In effetti il titolo della rassegna può sviare. Per comprenderlo bisogna considerare il suo secondo enunciato, “Design per spazi socialisti”, che anticipa la consistenza dei pezzi che vengono esposti: progetti, prototipi o prodotti finiti, sono loro a raccontarci le felici speculazioni estetiche e sociali, più che ideologiche e politiche, che ne sono state fondamento negli anni “tra lo Sputnik e la crisi petrolifera”, segnati dal boom di un nuovo orientamento al futuro, quando architettura e design con cinema, musica e letteratura cercavano di disegnarne un futuro diverso e/o di strafare sognando, perché no, di raggiungere anche l’ultima frontiera di startrekkiana memoria: lo Spazio. “Pianificazione” fu la parola chiave di quella trasformazione; termine che, al contrario di “progetto” o “visione”, implica la volontà fattiva, non più solo intenzionale, di progredire e migliorare attraverso la messa in pratica d’innovazioni sistematizzate.
Come formulò in Il mondo come progetto (Die Welt als Entwurf, 1991) il designer tedesco Otl Aicher, anche fondatore della Scuola di Design di Ulm, l’avvenire sembrava allora più vicino che mai grazie al progresso tecnologico, all’intelligenza artificiale, alla cibernetica, all’informatica e a un conseguente ottimismo trasversale agli schieramenti politici e ai regimi. Nell’era moderna del secondo dopoguerra l’idea di base (valida ancora oggi) è stata: progresso tecnologico = prosperità sociale = felicità per tutti. L’entusiasmo per la tecnologia e l’euforia per la pianificazione furono, anche nell’Europa del Comecon, la forza trainante del nuovo design e della progettazione architettonica di spazi pubblici, privati e persino ultra-terrestri. Sapendo già che durante la Guerra fredda le due discipline furono, anche loro, pesantemente strumentalizzate dalla propaganda di parte nella competizione tra le due grandi potenze USA e URSS, ci stupiamo di ritrovare tra i progetti in mostra di questo o quel blocco moltissime analogie, al di là di ogni rivendicazione politica, una forte somiglianza nella differenza.
Oriente e Occidente, progetti su sfide comuni
I progettisti est-europei dovevano affrontare le stesse sfide sociali dei loro colleghi occidentali
, lavoravano su questioni simili di design, su soluzioni sostenibili per l’ambiente e la casa, sviluppavano idee e forme in libertà, spesso pensando progetti visionari che non andavano oltre la fase sperimentale o di prototipo. Nonostante il controllo ossessivo dei servizi segreti, questi professionisti riuscivano a rimanere in contatto, scambiandosi esperienze e ragionamenti durante congressi, workshop, mostre, simposi a cui erano invitati a partecipare: la prima parte della mostra, nei locali del Kunstgewerbemuseum, prova a raccontare la fitte rete dei loro scambi soprattutto a livello teorico-accademico-intellettuale.
La seconda, spettacolare, ospitata pochi metri più in là, al Kulturforum, espone oggetti di design, progetti, disegni e fotografie di meravigliosi interni di architetture d’oltre cortina rimaste a lungo sconosciute o non più esistenti: su invito del museo ospitante, undici team provenienti da Tallinn, Vilnius, Varsavia, Budapest, Praga, Brno, Bratislava, Lubiana, Zagabria, Kiev e Berlino hanno collaborato al suo disegno, concentrando l’attenzione su esempi inaspettatamente coloratissimi, vivi e quasi futuristi, fiore all’occhiello della disciplina nei loro corrispettivi paesi di provenienza. È la prima volta che una mostra riesce a presentare in un’unica sede storie, discorsi, incontri, progetti e prodotti provenienti da così tante nazioni dell’ex blocco comunista; ne scaturisce un interessante percorso espositivo internazionale a 360°, dal cucchiaio alla città, nuovamente proiettati, come in un episodio di Spazio 1999, nella meravigliosa corsa alla conquista dello spazio.
E come si può non essere retrotopisti di fronte a tanta meraviglia?
Immagine di copertina: Věra Machoninová e Vladimír Machonin, Hall per congressi all’Hotel Thermal a Karlsbad (oggi Karlovy Vary, Cechia), ca. 1977. Courtesy smb
“Retrotopia. Design for Socialist Spaces”
25 marzo – 16 luglio 2023
Kunstgewerbemuseum / Museo delle Arti Decorative, Berlino
Il progetto è stato curato e diretto da Claudia Banz (Kunstgewerbemuseum) e con co-curatori/co-curatrici: Polina Baitsym, Alex Bykov, Melinda Farkasdy, Judith Horváth, Helena Huber-Doudová, Silke Ihden-Rothkirch, Karolina Jakaitė, Viera Kleinová, Rostislav Koryčánek, Mari Laanemets, Kai Lobjakas, Florentine Nadolni, Anna Maga, Kaja Muszyńska, Cvetka Požar, Klára Prešnajderová, Alyona Sokolnikova e Koraljka Vlajo
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Last modified: 3 Maggio 2023