Lo stato delle professioni creative nel Regno Unito visto con gli occhi di designer, urbanisti e architetti italiani
Era tutto previsto. Con la solita supponenza, ma anche con una certa insolita dose di realismo, il report The potential impact of Brexit on the creative industries, tourism and the digital single market Commissionato dalla Camera dei Comuni al The Digital, Culture, Media and Sport Committee, anticipava una serie di problematiche (o di disastri, a seconda del punto di vista) che la Brexit avrebbe prodotto in questo specifico settore.
Londra, un hub consolidato per le industrie creative?
Il primo focus di questa rubrica è dedicato al mercato del lavoro. Il rapporto si carica inizialmente di presunzione per poi sciogliersi nell’incertezza delle dinamiche che il bye bye servito a Bruxelles avrebbe potuto generare.
Il 25 gennaio 2018, due anni prima quindi dell’entrata in vigore della Brexit, si sottolineava infatti che per quanto riguarda le industrie creative del Regno Unito, Londra era la città più visitata d’Europa, e che questo ruolo fosse sufficientemente consolidato per resistere alle sfide di altri potenziali “hub” creativi europei. Tra questi “hub” sono citate grandi città come Berlino, Parigi, Amsterdam, Barcellona e Dublino, ciascuna delle quali ha ambizioni proprie da non sottovalutare. Strano che il rapporto non citi Milano, almeno nella sua introduzione all’argomento. Questa premessa indicava chiaramente che non c’era da preoccuparsi in termini di attrattività del contesto britannico, anche se dovesse rimanere essenzialmente circoscritto alla capitale.
Ben diversa l’analisi sulla forza lavoro, con evidenza della significativa percentuale che sostiene le industrie creative costituita da cittadini dell’Unione Europea e con l’acquisizione di segnali (in alcuni casi definiti “messaggi travolgenti”) da parte di aziende e organizzazioni operanti in questi settori, mirati al mantenimento della libera circolazione delle persone, proteggendo così l’accesso ai talenti. Gli autori sottolineavano già al tempo la necessità di dati affidabili sulla forza lavoro e sulle possibili lacune di competenze, così come una profonda chiarezza sulle norme e sulla revisione dei processi d’immigrazione da considerarsi essenziale per le imprese creative, al fine di concedere loro il tempo adeguato alla preparazione del nuovo scenario post-Brexit.
Due esperienze dirette
All’analisi generale e allo studio degli impatti trasversali derivanti dall’isolamento londinese dai 27, abbiamo deciso di aggiungere un esercizio molto semplice. Interrogare, professionalmente ed emotivamente, architetti e designer italiani che hanno fatto ingresso in UK da comunitari e che oggi s’immedesimano nei loro colleghi intenti ad avviare un percorso di studio o di lavoro analogo, con la differenza di vivere e subire meccanismi di accesso e dinamiche protezionistiche per nulla favorevoli alla libera circolazione di cittadini e saperi.
Giorgio Campana vive e lavora nel Regno Unito da ormai 10 anni. Opera nel campo della vehicle ergonomics, una disciplina a metà strada tra design ed engineering. La sua esperienza nell’automotive conferma che la Brexit ha avuto implicazioni notevoli in termini di reclutamento, perché l’intero processo è diventato più complesso e costoso per le aziende che tendono, così, ad avere difficoltà nell’attrarre talenti nel Regno Unito, per lo meno rispetto al periodo pre-Brexit quando dall’UE non c’era alcun tipo di limitazione e il flusso di giovani professionisti era costante.
“Quando nel 2013 ricevetti la mia offerta di lavoro per Jaguar Land Rover, nel giro di una settimana avevo già lasciato Torino (e il lavoro di consulente in FIAT), imbarcatomi sul volo Brindisi-Milano/Milano-Birmingham e trovato casa non lontano dal loro headquarter a Gaydon. Entro due settimane dalla loro offerta di lavoro ero già operativo e avevo iniziato a lavorare dividendomi tra il Land Rover Design Studio a Gaydon – dove ero responsabile dell’ergonomia sulla nuova Range Rover Evoque – e il Jaguar Design Studio che a quel tempo era a Whitley (Coventry) – dove ero responsabile dell’ergonomia sulla Jaguar E-Pace; entrambe nella loro fase di concept iniziale. Ecco, questo tipo di timing oggi – post-Brexit – sarebbe semplicemente impossibile”.
Per ovviare a queste barriere logistiche e burocratiche, molte aziende del settore hanno stabilito dei Design Studios localizzati in diversi stati o continenti che collaborano tra loro massimizzando le potenzialità degli strumenti digitali. NIO per esempio, società per la quale Campana presta oggi la propria attività lavorativa, ha il proprio quartier generale a Shanghai, Design Studios in Cina ed Europa (Germania) e vari dipartimenti sparsi tra Cina, EU e UK. Significativa la dichiarazione di William Li, co-fondatore e amministratore delegato di NIO, quando afferma in questo articolo ‘We will establish offices wherever the talent we need is located”.
Secondo Campana, il Regno Unito rimane tutt’ora un centro di eccellenza per l’automotive design and engineering a livello globale; soltanto nelle West Midlands, dove vive, hanno sede Design Studios and Engineering Departments di Jaguar Land Rover, Aston Martin, TATA, Mahindra, Lotus, Polestar, LEVC e Rimac, solo per citarne alcuni. Quello che, a suo avviso, sta cambiando, è il modo di operare di molte aziende, specialmente quelle che hanno necessità di avere accesso a un flusso ininterrotto di talenti per poter crescere e innovare; si sta passando da un setup centralizzato e nazionale (e pesantemente improntato sulla presenza fisica in ufficio) a uno più esteso, interconnesso e globale. E non è assolutamente detto che questa transizione giovi all’economia britannica.
Davide Minniti è direttore associato, International Masterplanning and Urban Design, presso Atkins, società di consulenza con sede principale a Londra, leader mondiale nei campi del design, dell’ingegneria e del project management con oltre 15.000 dipendenti. Trasferitosi a Londra da Parigi nel 2008, ha ottenuto un ruolo stabile dopo appena quattro settimane dal colloquio iniziale. Anche Minniti ha rilevato le dimissioni di personale, principalmente polacchi, italiani e spagnoli (anche a causa della pandemia) e una decisa restrizione del mercato. Un aspetto a suo avviso interessante è il limite di accesso al bacino di lavoratori causato dal sistema di tassazione.
“Paradossalmente, mentre la tecnologia durante la pandemia ha accelerato la collaborazione globale (lavoro quotidianamente con tre continenti), il regime fiscale è un inibitore per i team internazionali. Per team come il mio fatto per il 90% da “stranieri”, lavorare da remoto dal Paese di origine (quasi un nomade digitale) è stato molto limitato, questo suggerisce, indirettamente, una minore attrattività della posizione lavorativa in UK rispetto ad altri Paesi europei”.
Nel magma discendente delle dinamiche di accesso e operative nel settore delle industrie creative, Minniti inserisce anche l’incremento di complessità e dei costi di accesso alla formazione creativa. Per la formazione universitaria, ad esempio, le tasse possono arrivare a superare 30.000 sterline/anno. Un mercato meno dinamico, secondo il professionista calabrese trapiantato da anni nel Regno che fu di Elisabetta, è un mercato stagnante, meno produttivo e resiliente.
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professione designer , regno unito
Last modified: 13 Maggio 2023