Impressioni dal Fuorisalone: il primario statuto estetico dei prodotti in mostra per un festival di arti applicate all’industria che rende anacronistico il titolo Salone del Mobile
MILANO. Ho visto cose che voi normali… Nel Cortile d’onore del palazzo di Brera ho visto Napoleone camminare sulle acque. In un vicino cortile, più dimesso, della Milano settecentesca ho salutato un ippopotamo bizantino complimentandomi per la sua nuova pelle tutta musiva. Una vetrina accanto esponeva grandi lastre di marmo attraversate da saette gestuali più belle che nei quadri dell’espressionismo astratto. Nella stessa strada affacciava un altro negozio (showroom) animalistico, questa volta interamente abitato da una nuova specie metallurgica: l’argenteus reptilis… Nei cortili dell’Università statale mi ha accolto invece un monolite di perfetta geometria che alla sua base rilasciava ancora la nebulosa prodotta dall’impatto con il terreno. Di fronte si ergeva un “Teatro per salvare il mondo”, struttura mobile che migrerà per diffondere il verbo della sostenibilità. Lo stesso verbo aveva intanto generato, proprio accanto al teatrino, enormi gatti-divano (stibadium-cattus) in “polimeri Second Life”. Su questi adorabili felini mamme e bambini si sdraiavano per scambiarsi foto ricordo, e intanto le bambine correvano verso il sottoportico per godersi le decine di minuscole giacche di velluto appese, dai colori arcobaleno, che tanto si adatterebbero per i cambi stagione delle loro bambole, mentre dall’alto del loggiato del Cortile del Filarete un altro arcobaleno disegnava orizzonti futuri: un luminescente skyline di pannelli verticali in “policarbonato estruso” (sembra il nome di un pianeta alieno).
Dopo essermi lasciato alle spalle una macchina celibe di sagoma fordista, contraddetta da un imponente orticello a strati verticale che invitava a portarsi via una piantina, pensavo sia bene che progettisti e industriali si preoccupino dei problemi ecologici, di sostenibilità eccetera, anche se forse si decidono altrove i disastri del pianeta. E così cammino, guardando e ragionando, sino a incappare in un gruppo di mamme e figlioli che si stanno mettendo in coda nel contiguo Cortile della Farmacia (nome che ricorda l’origine ospedaliera del complesso architettonico della Ca’ Granda) per provare l’ebbrezza su una delle tante altalene montate in circolo su un’enorme struttura anch’essa immaginata secondo principi di sostenibilità materica (speriamo anche strutturale), ma anche secondo lo spirito ludico pop che aleggia dappertutto sulle infinite installazioni e messe in scena e vetrine e salotti all’aperto e opere e merci radunate dallo sterminato Fuorisalone della Design Week milanese.
Meno paziente del bambino e della mamma in coda alle altalene della biodiversità ludica, ho capito di dover rinunciare a qualche spettacolo. Mi ha rammaricato quello perso all’ex Macello, sebbene mi fossi presentato mezz’ora prima dell’apertura mattutina, e davanti alla cui affascinante rovina (salviamone qualche segno nel progetto di “rigenerazione”!) ho imprecato contro le centinaia di mammiferi già in coda, cui ho inflitto per ripicca la metafora di ovini in fila prima della triste fine…
Obbligato a riprendere la mia peregrinazione in cerca d’altro, tra le molte opportunità che si offrivano mi sono ritrovato in un’altra grandiosa corte neoclassica, dove si annunciavano mostre di “oggetti nomadi” e dove ho potuto sperimentare un’installazione particolarmente curiosa. Si trattava di un padiglione in alluminio traforato nel quale, una volta infilatomi all’interno, mi è sembrato di essere la microcamera con cui i medici ci perlustrano l’organismo nelle indagini endoscopiche: ho deciso di dare affettuosamente alla scultura il soprannome di Colonscope.
Ancora sotto l’effetto della coinvolgente scultura intestinale, son voluto tornare a percezioni più nitide, sfilando e curiosando in negozi (showroom) per l’illuminazione di marchi storici. E mi accorgo che anche la luce ha assunto i caratteri dell’installazione immaginifica. Lampada e lampadina tradizionali sono scomparse: la luce è una volta stellata che non si sa come stia su, è pioggia rifrangente, o stalagmite trasparente, o scultura arcaica che cambia d’intensità e tonalità come a seguire l’umore dell’abitante o, ancora, è una grande e poetica bolla di sapone come quelle con cui giocano alcuni bravissimi clown… (altrove ho ritrovato la luce anche come segno grafico che traccia enormi ritratti fauves sulla parete, oppure come insegna d’arte concettuale: si veda per esempio il manifesto contro il patriarcato We Are All Clitoridian Women).
Troppe luci. Non riesco neppure a immagine quali altre versioni potrei scoprire al Salone in Fiera a Rho. E nemmeno quali altre interpretazioni d’interni, sedute, arredi e bagni e cucine siano esposti nei padiglioni fieristici per comunicare con i molti professionisti accorsi in città (oltre 300.000, si dice). L’incessante immaginazione dell’interior design che una volta si sarebbe chiamato “funzionale” affiora comunque e ovunque anche nelle sedi del Fuorisalone più pragmatiche e commerciali, dove le cucine sono disegnate come quadri neoplastici, i lavelli e lavabi sono di eleganza metafisica, le sedute si offrono e contorcono come sculture organiche e gli arredi propongono sinestesie di colori, luci, materiali, pattern e persino suoni.
Salone del Mobile, un anacronismo semantico che merita un aggiornamento
Tirando un’impossibile somma del mio vagabondaggio
, procedo a fatica tra un pubblico più denso che nei cortei politici e mi dico che il mio racconto non deve apparire come parodia, tanto meno riprovevole. Semplicemente, qui la merce è esposta nel suo momento più sognante, non è ancora compromessa dal tornaconto di mercato né degradata dall’uso. È il momento pubblicitario, in cui tutto è arte, comunicazione, fruizione. Qui tutto è estetico, tutto è merce per la felicità, merce felice. Quella che ancora pochi lustri fa si definiva come una fiera mercantile, oggi è un festival delle “arti applicate all’industria” che si lascia alle spalle ogni sudditanza o riverenza per le cosiddette libere arti maggiori.
I prodotti, i progetti e le merci corrono verso un primario statuto estetico che restituisce al mittente il discapito funzionale e mercantile che tanto a lungo ha penalizzato le opere del disegno industriale (ma anche della moda o del cibo, settori anch’essi coinvolti nella kermesse). Dovremmo dunque trovare un qualche neologismo per identificare gli autori o artefici di questa industria estetica, evoluzione della novecentesca industria culturale tanto bistrattata dal modernismo critico, perché questi autori o artefici sono, insieme, architetti, designer, comunicatori e artisti visuali che operano unitamente a tecnici, aziende, maestranze, industriali e mercanti.
Anche l’anacronismo semantico del titolo di Salone del mobile, che pure richiama il significato francese del “salon” artistico e che per anglofilia si traduce da anni nella formula troppo neutra di Design Week, meriterebbe un aggiornamento, giacché nella manifestazione milanese, come si è reso evidente quest’anno più che mai (sino a far lamentare alcuni professionisti che vedono il rischio si trasformi in fiera strapaesana di popolo), confluiscono e si fondono molteplici tipologie espositive e spettacolari: la tradizionale fiera mercantile, il salon di opere d’arte, l’evento o manifestazione culturale, il festival, l’esposizione internazionale, il circo, il parco divertimenti… Sino a trasformare la città in un parco a tema dove per una settimana sale in scena l’opera totale pop, l’opera totale della merce felice.
Immagine di copertina: © Arianna Panarella
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arte , Milano , Milano Design Week , salone del mobile
Last modified: 3 Maggio 2023