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Michele RodaWritten by: Interviste

Mario Botta: l’uomo oggi non è più al centro

Mario Botta: l’uomo oggi non è più al centro

Tra architettura e arte, digitale, sostenibilità e didattica, intervista a tutto campo all’architetto ticinese che festeggia gli 80 anni

 

MENDRISIO (SVIZZERA). “Purché non si parli d’architettura”. Mario Botta non racconta soltanto. Ascolta, si interessa, fa domande, coinvolge (“Diamoci del tu, eh”). E quando accenni ai programmi della Biennale 2023 (qui l’intervista alla curatrice Lesley Lokko) ecco la battuta tagliente. Che non può sorprendere: architetto ticinese, “figlio” del Movimento moderno, tra i più rigorosi esponenti di un’architettura forte, autoriale, strettamente connessa con il luogo e la società che la ospita. Ha costruito quasi ovunque (mai rinunciando al proprio linguaggio: tra gli elementi ricorrenti la geometria, i muri spessi, le superfici in mattone), ha insegnato (fondando l’Accademia di Architettura di Mendrisio), ha indagato con intensità i rapporti tra progetto e arte (anche, ma non solo, nei tanti spazi sacri progettati e realizzati).

 

Iniziamo proprio da qui, Venezia, la Biennale. Una visione molto critica, sembra di capire.
Non può che esserla. La mia è una generazione cresciuta col Movimento moderno. I nostri riferimenti erano il Bauhaus da una parte e Le Corbusier dall’altra. Era lui, il Picasso dell’architettura, a dominare la coscienza critica degli architetti. Abbiamo superato di slancio la società dei consumi, poi diventata società dello spettacolo. Oggi affrontiamo una realtà complessa fatta di pandemia, guerra, crisi economica, fine della globalizzazione.

 

In una risposta ci siamo tolti il “peso” del bilancio. Perché questa intervista cade in giorni speciali: il primo aprile di quest’anno Mario Botta compie 80 anni.
Ma sì, non diamo troppa importanza alla ricorrenza. Gli anni li compiono tutti.

 

Allora guardiamo all’oggi e al domani. Definiamola, questa fase storica.
Un pastiche, per dirla alla dialettale, che assomiglia anche all’inglese. Si sono esauriti i valori autentici del Moderno. Quasi nessuno osa parlare di spiritualità e ideali. Sembra perfino difficile trovare uno spazio adeguato alla vita dell’uomo: la globalizzazione ha ridotto tutto a forme di business e ha appiattito in maniera abnorme le geografie del mondo. L’uomo non ne è più al centro.

 

In architettura come si traduce questo fenomeno?
Tutto si assomiglia. Prendi una rivista, la sfogli e non sai se quell’architettura è stata costruita al Polo Sud o al Polo Nord.

 

Però ci sono frammenti d’identità che resistono. Qui tutto parla di Botta: siamo a Mendrisio, lo studio è all’interno di un suo progetto. Se alzi lo sguardo trovi il Fiore di pietra (il complesso turistico sul Monte Generoso), a poche centinaia di metri c’è l’Accademia.
Qui l’identità si è conservata perché è legata ad una storia ancestrale. La tradizione viene da un grande passato. Borromini era architetto moderno nella cultura primitiva in cui viveva. Credo sia anche una questione di condizione geografica. Quando Rafael Moneo è stato qua, mi ha detto: “Adesso capisco perché da queste terre sono venuti grandi architetti. Vivete già nello spazio, con questa struttura orizzontale del piano d’acqua dei laghi che accoglie i rilievi dell’orografia”. Più invecchio più mi convince questa osservazione: viviamo in un “catino” in cui la geografia ha modellato anche lo spirito dell’uomo.

 

Producendo storie architettoniche di rilievo internazionale, tra cui quelle di Aurelio Galfetti e Luigi Snozzi.
Proprio partendo da questi laghi tanti architetti hanno interpretato il loro tempo. Una condizione, per me e per i colleghi della mia generazione, che ha reso la carriera più facile. Il mestiere è stato anche un fatto d’amicizia. Tra di noi c’erano complicità, tanti lavori sono nati per il piacere di farli insieme. Reciprocamente abbiamo alimentato una cultura del progetto.

 

Che resiste al pastiche.
Perché è radicalmente diversa da altre, che non ho paura a definire strane. Penso agli Emirati Arabi, ad Abu Dhabi. Non ci sono mai stato, quando mi hanno invitato ho risposto: “Non vengo perché voi costruite sulla sabbia”. La natura della nostra terra è nel romanico, nella gravità.

 

Gravità. Sembra parola tanto “antica” quanto adatta a spiegare il linguaggio dell’architetto Botta.
Il costruire era un fatto che legava, prima ancora che ad un luogo, ad una tradizione, ad un pensiero, ad un’arcaicità, ad un territorio di memorie. Costruire è ancora oggi lo scaricare i carichi al suolo. Non c’è altra ragione che dia senso al fatto architettonico.

 

Però oggi anche l’architettura interpreta la realtà digitale.
Sono contro il virtuale, sono contro le forme di comunicazione effimere. Se le facessi mie mi sembrerebbe di tradire il mestiere. Questo studio è pieno di carta e di modelli fisici. Sotto, nel piano interrato, ho un archivio di 100.000 disegni.

 

Si può trasmettere questo approccio alle generazioni più giovani?
Credo di sì, anche se con declinazioni diverse. La Scuola si deve reinventare ogni giorno, non è nata con la verità in tasca. Ho lavorato 25 anni in Accademia. Quando l’ho lasciata era diversa da quando l’avevo fondata. Naturalmente, con i mutamenti sociali e con la globalizzazione, anche l’insegnamento e la trasmissione dei valori si sono dovuti adeguare. Ma i valori primitivi devono restare. A partire dalla gravità. Torno ancora su quel punto ma è per me è decisivo: non c’è architettura che non subisca la legge di gravità. Ricordiamocelo.

 

Un altro tabù è quello della geometria.
Non ho mai capito perché oggi faccia così paura parlarne. La mia non è una preclusione ideologica, le mie architetture sono geometriche perché trovo pace quando la geometria risponde alle domande che il progetto pone. La gravità ha bisogno di trovare un equilibrio e la geometria esprime la forma più alta di questo equilibrio. Perché queste resistenze?

 

Forse hanno a che fare con una necessaria ricerca di novità, di estro, di complessità della forma contemporanea.
La bizzarria nella composizione, l’asimmetria, lo scandalo si oppongono all’economia del lavoro, alla parsimonia del costruito, al fatto che “il meno è il più”. Sono elementi della cultura moderna che ritengo ancora validi. La loro perdita porta ad una psicosi verso la geometria.

 

Geometrie e cemento. Anche i materiali dei progetti sono a loro modo “scandalosi” per una certa sensibilità contemporanea.
Altro fenomeno che non capisco. Il cemento, il beton, è il materiale più economico, più semplice, più flessibile. E anche il più bello: un sistema di costruzione che ha sostituito degnamente la pietra su pietra.

 

Eppure oggi “piace” poco. Forse perché è impattante a livello ambientale.
Non credo sia un problema di peso ecologico. Inquina di più costruire con il legno. Temo sia proprio una preclusione ideologica, un convincimento sbagliato dell’opinione pubblica.

 

La rubrica in cui viene pubblicata questa intervista ha un nome evocativo: “Eretici e Profeti”. Se guardiamo al tema della geometria o dei materiali, pare che in 50 anni di storia le posizioni si siano ribaltate. Chi era profeta è diventato eretico, e viceversa.
Sì, è vero, è proprio così.

 

Vale anche per le questioni tipologiche?
Tutto è uguale, tutto è ibridato. Io invece interpreto l’eccezione e la differenza come valori, così come le intendevano il Movimento moderno, Picasso, i grandi creativi del Novecento, le avanguardie. Soltanto l’eccezione conferma la regola e ti può spingere a pensare in modo opposto ad un’omologazione in cui tutto si assomiglia. In tutto il mondo sembrano “vincere” le stesse architetture. Ma che senso ha?

 

Si è perso il senso moderno del limite?
Così sembra. Assistiamo ad una specie di apologia della tecnologia. Ci comportiamo come se tutto si possa fare. Ma non è vero! La tecnologia è uno strumento arcaico che permette di semplificare componenti che invece non vanno semplificate. Il costruire va pensato in funzione della resistenza dei materiali, non si può usare la pietra come fosse l’acciaio.

 

Parliamo di energia e di sostenibilità?
L’architettura è l’arte di costruire lo spazio di vita dell’uomo e deve usare i materiali e le tecniche che ha a disposizione. Dobbiamo tornare a calibrare i progetti rispetto ai ritmi del sole, alle stagioni, alla natura. Ma è profondamente sbagliato confondere gli strumenti con le finalità. Possono cambiare molte cose nella nostra società, ma l’uomo continua e continuerà a vivere 24 ore al giorno nei luoghi che costruiamo.

 

Anche se è un uomo diverso?
Tra le altre cose che m’impegnano in questi mesi, c’è un concorso per un ospedale. Sono tornato a studiare il progetto per quello di Venezia di Le Corbusier. Nonostante il tempo passato, le esigenze non sono cambiate.

 

Nemmeno, in decenni di attività, gli elementi centrali del linguaggio: oltre alla geometria, il rapporto con il luogo, il muro e il suo spessore, la composizione delle aperture. 

E la luce, che è diventata per me un’ossessione. Mi sembra di capire sempre di più che proprio la luce è la vera generatrice dello spazio. Senza luce non vi è spazio, è il fattore principale, più ancora che la qualità dei materiali o la composizione degli spazi. Forme e geometria sono strumenti, la luce è la fonte primaria del lavoro dell’architetto.

 

Un padiglione temporaneo al MAXXI (dove un anno fa s’inaugurava la mostra “Mario Botta. Sacro e profano”, da cui provengono tanti dei modelli distribuiti nello studio) in collaborazione con Emilio Isgrò (apertura a breve), l’allestimento al MASI di Lugano, presso la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati (inaugurazione a settembre con la cura di Gabriella Belli), di una mostra dedicata a Giacomo Balla e Piero Dorazio. Tanti continui rimandi. Sembra non poterci essere architettura senza arte.
L’arte è strumento che sublima i valori di vita dell’uomo attraverso il colore e il disegno. Ed è una ginnastica critica formidabile perché non tradisce nemmeno di un giorno la propria nascita: vediamo un’opera e la possiamo datare. Uno straordinario termometro del tempo.

 

Mentre l’architettura invecchia.
Certo, l’architettura invecchia. Un edificio di 20 anni fa è già datato come linguaggio perché non esprime più le tensioni del momento storico in cui è stato costruito. Ma l’architettura è anche sincera perché puoi ritrovare il suo tempo storico, è lì da osservare. L’architettura è più complessa dell’arte.

 

Quindi è più complesso essere architetto?
Recentemente sono stato invitato a tenere un dialogo con Sandro Veronesi (scrittore e architetto) intorno alla domanda “Come si fa ad essere scrittori senza essere architetti?”. Se penso alla mia esperienza, questo dubbio lo devo ribaltare: “Come si fa ad essere architetti senza essere scrittori?”.

 

L’intervista, qui riprodotta per gentile concessione dell’editore Umberto Allemandi & C., è stata realizzata per l’inserto “Vernissage” del numero di maggio di “Il Giornale dell’Arte” interamente dedicato alla Biennale Architettura 2023

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 4 Aprile 2023