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Marco FalsettiWritten by: Patrimonio

Lost in demolition: il Giappone e la negligenza del Moderno

Lost in demolition: il Giappone e la negligenza del Moderno

L’imminente demolizione del Gymnasium della Prefettura di Kagawa di Kenzō Tange allarga la riflessione sui temi della memoria e della conservazione

 

Il problema della conservazione del patrimonio architettonico è da sempre legato alle diverse sensibilità culturali, riflettendo la visione che ciascun paese ha della propria storia, non solo progettuale. Se nel contesto europeo, eccettuati alcuni eclatanti episodi legati soprattutto alla lunga scia della guerra fredda, il dibattito sulla conservazione, o heritage come è sempre più spesso chiamato, si è trasformato in quello sulla ricostruzione ex novo (come i recenti casi in Germania e nell’Europa orientale testimoniano), il paese del Sol Levante sembra soffrire di una colpevole negligenza nei confronti del patrimonio del Moderno, un processo che ha purtroppo assunto caratteri sistemici.

 

Il caso del Gymnasium della Prefettura di Kagawa

È notizia recente che l’edificio, realizzato da Kenzō Tange nel 1964 quasi contestualmente ai celeberrimi stadi olimpici Yoyogi, sarà a breve demolito. L’edificio, situato nella città di Takamatsu, la quale ospita anche l’iconico edificio amministrativo della Prefettura, costruito quattro anni prima, adotta lo stesso principio strutturale degli stadi olimpici, cioè quello del tetto sospeso, declinato nelle forme di un paraboloide iperbolico dalla scala contenuta (1.300 spettatori). Le dimensioni più modeste non inficiano tuttavia la forza plastica del complesso, il cui scabro volume cementizio si erge nella piatta periferia urbana delineando una tra le opere più espressive della seconda stagione di Tange. Tale fase, caratterizzata dal processo di risemantizzazione del rapporto con la tradizione, è da questi tradotta nelle forme plastiche del beton brut, l’uso del quale ha portato, non a caso, a classificare alcune opere come “brutaliste”. Le ragioni di Tange sono in realtà più complesse del mero dato espressivo e risiedono in un vasto processo di formulazione del Moderno le cui radici affondano, in realtà, nella stagione prebellica, dove maturano alcune tra le più importanti intuizioni del maestro di Sakai.

Il Gymnasium, a pianta ovale, sorge su un lotto di forma quadrata nei pressi del porto, dal quale si solleva per mezzo di quattro massicci pilastri a sezione rastremata che sorreggono la copertura a sbalzo. Diversamente da altri suoi progetti coevi, qui Tange inverte la disposizione dell’arena, proiettandola al livello superiore e lasciando al piano terra e al mezzanino i locali tecnici, gli spogliatoi e le sale conferenze. Superato l’ampio foyer vetrato dalla visuale quasi del tutto libera grazie alla sopraelevazione della cavea, gli spettatori si trovano così ad emergere al di sotto della copertura parabolica, che dà forma agli spalti attraverso una doppia rastremazione, in pianta e sezione. L’immensa sala, resa ancor più maestosa dall’assenza di sostegni strutturali, è illuminata da sei finestre circolari ricavate nelle travi curve perimetrali, che insieme alla forma generale proiettano l’immagine di un modernismo archetipico e fortemente simbolico.

In un saggio del giugno 1965 intitolato, non a caso, Spazio e simbolo, Tange scrive che nel progetto iniziale del Gymnasium aveva inizialmente pensato di “affondare” l’intero edificio nel terreno. Nelle successive discussioni con il governatore della Prefettura e con gli altri attori coinvolti nel progetto, tale suggestione ipogea fu sostituita dall’immagine di un corpo che galleggia nell’aria come una barca sull’acqua, incarnando la freschezza dello “spirito giovanile dello sport”. Questa soluzione, approvata all’unanimità, è quella poi effettivamente realizzata, mentre la forma del guscio cementizio attinge all’immagine dello shimaihagi, una tradizionale barca da pesca della regione di Tohoku. Il tetto curvo, in lastre prefabbricate in calcestruzzo dallo spessore di soli 5 cm, è tenuto in posizione da cavi in sospensione, disposti tra le due travi perimetrali, lunghe ben 80 m. Degni di nota sono anche gli interni, progettati dal celebre Isamu Kenmochi, scelto da Tange anche per gli arredi dell’edificio amministrativo della Prefettura.

Nel 2014 il Gymnasium è stato chiuso a causa d’infiltrazioni d’acqua provocate dal deterioramento dei cavi della copertura e le difficoltà nel condurre i lavori di riparazione, accentuate dall’insolita forma di quest’ultima, hanno fatto lievitare i costi fino a suggerirne la demolizione. Eppure, che si possa intervenire – e con successo – sui capolavori modernisti giapponesi è stato dimostrato dalla riqualificazione dei due Yoyogi National Gymnasium dello stesso Tange a Tokyo, simboli delle Olimpiadi del 1964 e della rinascita del Giappone, utilizzati anche in occasione di quelle del 2020. Gli sforzi di DoCoMoMo Japan e dei gruppi di conservazione (che hanno suggerito anche soluzioni concrete, come ad esempio quella di sostituire il tetto con una membrana o di rimuoverlo del tutto) hanno finora ritardato la demolizione, ma sembra che questa sia ormai inevitabile.

 

Un depauperamento fisico…

Il Gymnasium è peraltro solo l’ultimo di una lunga serie di capolavori del Moderno avviati alla demolizione (o già demoliti). Non a caso il critico tedesco Ulf Meyer, in un recente articolo sull’edificio dall’emblematico titolo Japan Eats Itself, ha segnalato come a breve potrebbe essere difficile studiare l’architettura giapponese dal momento che i suoi più importanti edifici non ci saranno più.

Accanto alla Nakagin Capsule Tower, il capolavoro di Kishō Kurokawa la cui demolizione, avvenuta lo scorso anno, ha suscitato unanime condanna, sono stati buttati giù, in tempi recenti, anche la Sofitel Tower di Kiyonori Kikutake, lo Yaesu Dai Building di Togo Murano, la Kasama House di Kunio Maekawa (ma disegnata da Tange), il Grand Prince Hotel Akasaka e il Dentsu HQ building, sempre di Tange, e molti altri ancora. Un’analisi condotta dal professor Koichiro Aitani della Texas A&M University e presentata al Padiglione del Giappone alla Biennale di Venezia 2021 ha segnalato come, tra le opere dei maestri giapponesi, siano stati demoliti ben 14 edifici di Tange, 3 di Fumihiko Maki, 12 di Arata Isozaki e 9 di Kurokawa, solo per citarne alcuni.

 

… e simbolico

Accanto al problema della perdita di edifici dall’indubbio valore artistico c’è poi, specie per le architetture del secondo dopoguerra, una ragione più profonda, che dovrebbe indurre le amministrazioni nipponiche a riflettere sui nessi simbolici e sul potere della memoria. Non riguarda naturalmente tutte le architetture moderniste giapponesi ma alcune di esse, legate indissolubilmente alla tragedia del conflitto. Nel raid americano del luglio 1945 morirono infatti migliaia di persone e l’antico centro di Takamatsu fu quasi del tutto spazzato via dalle bombe incendiarie; scomparve così la sua memoria storica e con essa i suoi simboli, privando la città di elementi identitari nei quali riconoscersi, premessa di qualsiasi comunità. A questo Tange nel dopoguerra cercò di porre rimedio, operando instancabilmente in tutto il Giappone e arrivando a lavorare persino tra le macerie radioattive di Hiroshima, che molti avevano reputato una pura follia.

Anche a Takamatsu Tange trovò una comunità ferita ma desiderosa di ricominciare, con lo zelo e la perseveranza che caratterizzano queste latitudini. Un’opera tanto monumentale in una piccola città ha così rappresentato un’icona potente, emblema di sogni e possibilità future, che i 60 anni trascorsi dalla sua costruzione (con l’infinita serie di eventi svoltisi al suo interno) hanno eletto a simbolo di una comunità. Sarebbe quindi doppiamente colpevole distruggere, più che un’architettura, uno spirito – per citare Tange -, privando tutti noi di un simbolo importante, in un mondo che di simboli sembra avere disperato bisogno.

Immagine di copertina: vista dell’arena e degli spalti “a sbalzo” (courtesy of Tange Associates)

 

Autore

  • Marco Falsetti

    Nato a Cosenza nel 1984, è Architetto e PhD, docente a contratto presso la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma. Le sue ricerche riguardano la morfologia urbana, i frammenti identitari della città moderna e il ruolo dei grandi maestri nella formazione della coscienza progettuale contemporanea. Dal 2012 svolge attività progettuale, ricevendo premi e riconoscimenti. Ha pubblicato le monografie "Roma e l’eredità di Louis I. Kahn" (con E. Barizza, 2014), "Annodamenti. La specializzazione dei tessuti urbani nel processo formativo e nel progetto" (2017). 2019 Paesaggi oltre il paesaggio" (2019)

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Last modified: 24 Febbraio 2023