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Patrizia MelloWritten by: Forum

Toshiko Mori e Steven Holl: una coppia (e la prima donna) per «Domus»

Toshiko Mori e Steven Holl: una coppia (e la prima donna) per «Domus»

Dopo Jean Nouvel, promettente il dialogo tra i due guest editor scelti dalla storica rivista per il 2023

 

Due architetti, una rivista. Questa la scelta di «Domus» per il 2023, che chiama alla guida della storica testata Steven Holl (1947) e Toshiko Mori (1951) con il fine, forse, di rafforzare l’universo delle riviste cartacee costantemente assediato dal World Wide Web.

Il dialogo che ne potrà scaturire si fa promettente innanzitutto perché si tratta di una coppia (e Mori è anche la prima donna a dirigere Domus), entrambi sono impegnati nella didattica e nella ricerca in prestigiose università, quindi perché i due protagonisti hanno approcci progettuali molto differenti.

Mori, nel presentare ufficialmente la rivista e gli argomenti che tratterà mese per mese (da giugno 2023), parte dibattendo sull’importanza della foresta come simbolo di una vita comunitaria ricca, votata alla resistenza e quindi alla tanto blasonata resilienza (“I sistemi rizomatici permettono agli organismi della foresta di comunicare tra loro inviando segnali per allertare quando ci sono forze distruttive e di sostenersi a vicenda attraverso la condivisione delle risorse”). Holl mettendo sul piatto della bilancia arte, musica (“La musica, come l’architettura, è un’esperienza coinvolgente: ti circonda”), filosofia… soprattutto il problema della percezione (febbraio 2023) a partire dal saggio di Maurice Merleau-Ponty Cezanne’s Doubt (1945) che si potrebbe interpretare come il biglietto da visita dell’attività di Holl (“Cezanne wanted to depict matter as it takes on form, the birth of order through spontaneous organization”): prova ne sia l’abitudine di produrre un acquerello al giorno (“Quando disegno e dipingo, collego il soggettivo e l’oggettivo. È un modo di pensare aperto e di sentire libero, ed è imprevedibile”).

 

La filosofia zen di Toshiko Mori

Mori

(che ha avuto John Hejduk e Isami Noguchi tra i suoi mentori) sembra avere raggiunto una sorta di filosofia zen: parte dalle piccole cose per stabilire connessioni profonde con il mondo. È il caso di uno dei progetti realizzati durante il Covid, una sedia a prova di concentrazione (Asana H), disegnata per fare fluire nella giusta direzione i flussi vitali che dalla mente irradiano il corpo.

 

Steven Holl: una fusione totale con il progetto

Holl

(che inizialmente ha lavorato nello studio di Lawrence Halprin) appare, invece, totalmente assorbito dal progetto nella mente e nel corpo, cosicché i suoi edifici spesso non fanno altro che restituire questo genere di fusione totale, verso an idealistic architecture, così come egli ama definirla, di cui una significativa testimonianza è «Pamphlet Architecture», la pubblicazione sperimentale di architettura lanciata nel 1977 insieme a William Stout, e tutt’ora viva. Come dichiara Holl, «Pamphlet Architecture» nasceva come bollettino indipendente che esclamava: “Noi apparteniamo alla modernità, non alla postmodernità”. Ogni opuscolo era un invito all’emersione di un punto di vista alternativo. Ogni pamphlet riguardava un’opera, un manifesto, ecc. Ad esempio, «Pamphlet Architectur 8: Planetary Architecture» di Zaha Hadid è stata la prima pubblicazione che ha raccolto il suo lavoro dal 1977 al 1981. Sperimentazione proseguita nel tempo con la realizzazione, nel 1993, insieme a Vito Acconci (1940-2017), di una nuova facciata per lo Storefront for Art and Architecture nel centro di Manhattan, sostituendo la facciata esterna esistente con una serie di dodici pannelli mobili che ruotano verticalmente o orizzontalmente per aprire l’intera lunghezza della galleria direttamente sulla strada; una sorta di facciata “teatrale” in grado di recitare parti diverse in relazione all’artista di turno. O, ancora, nel 2005 con la Turbulence House nel paesaggio desertico del New Mexico, commissionata da Richard Tuttle, la cui forma consente al vento turbolento di soffiare attraverso il suo centro.

Soffermandoci ancora su Holl, i suoi progetti si presentano spesso come contrappunti del tempo, vanno controcorrente, ritagliano spazi di vivibilità a prescindere da tutto: come nella recente Hunters Point Library (Queens, NY, 2019), una vera e propria pausa di riflessione nell’idioma schiacciante della metropoli.

Varcare la soglia di alcuni edifici è come entrare in uno scrigno segreto fatto di tasselli di bellezza inconsueti, di ricerca delle atmosfere che scolpiscono il vuoto lasciandone fluire il senso, contro certa retorica formale traballante di contenuti. Le architetture di Holl, al contrario, fanno affiorare i contenuti in un gioco di emersioni caratteristiche che guidano lo spettatore ad una fruizione intimistica, come nel recente ampliamento del Museum of Fine Arts (Houston, 2020), una struttura porosa e trapezoidale rivestita di tubi di vetro verticali che ammorbidiscono le facciate.

 

Lo svelamento dal confronto con il passato

D’altro canto il confronto con il passato per l’architetto americano è sempre un gioco da ragazzi che rimanda allo svelamento puro, così da rendere ogni contatto/contrasto un matrimonio eccellente che supera l’interesse personale e approda nella comunione d’intenti. Dal Maggies’s Centre Barts (Londra, 2017), uno scrigno traslucido nel centro di Londra con frammenti di vetro colorato che richiamano la neume notation della musica medievale del XIII secolo; all’ampliamento e ristrutturazione del Nelson-Atkins Museum of Art (Kansas City, 2007), dove i nuovi elementi si pongono in un contrasto complementare con il classico “tempio dell’arte” originario del 1933.

In definitiva, si tratta spesso di un elogio dell’architettura, di ciò che è costruito in sé per sé. Se si guarda agli interni di certi edifici, questi si presentano come esercizi per condurre il visitatore oltre la visione di ciò che è solido verso forme di esplorazione della materia di mutevole intensità. Holl, infatti, articola visioni in sequenza, modulate ed enfatizzate dalla luce; sfaccetta la materia allo stesso modo di uno scultore che ne evidenzia una possibile empatia, oltre la mera costruzione e il senso di staticità. La Cappella di Sant’Ignazio (Seattle, 1997) costituisce un esempio eloquente: la metafora della luce prende forma in diversi volumi che emergono dal tetto, le cui irregolarità rimandano a diverse qualità della luce: orientate a est, a sud, a ovest e a nord per ciascun rito celebrativo; ma anche la Ex Di In House (Hudson Valley, 2016) pensata per l’esplorazione dello spazio e dell’energia interiore in essa contenuta; o il Knut Hamsun Center (Hamarøy, 2009) dove il concetto è quello di building as a body, creando un campo di battaglia di forze invisibili.

 

Un invito a rallentare e ridimensionarsi

In un’intervista con Dietmar Steiner, nel 1998, Holl afferma: “Mio fratello è scultore e io stesso ho lavorato con James Turrell: molti dei suoi modelli sono stati realizzati nel nostro studio. Dennis Oppenheim è un mio caro amico, mentre da Agnes Martin e Richard Tuttle ho appreso quanto siano importanti per gli artisti e per il loro lavoro le condizioni di luce e le proporzioni degli ambienti”. Ed è proprio il tema della proporzione la principale chiave di lettura degli edifici realizzati, passando dal più ottimisticamente “grande” (Linked Hybrid, Pechino, 2009; un nuovo spazio urbano poroso del ventunesimo secolo, una “città aperta nella città”) al più drasticamente piccolo (Round Lake Hut, 2001; una stanza-studio solitaria con un tavolo e una sedia). Nella stessa intervista Holl sostiene che la proporzione degli spazi sia uno di quegli elementi decisivi dell’architettura che oggi non vengono più insegnati con la giusta attenzione: “Eppure la proporzione è uno degli aspetti finali e più importanti dell’architettura. È qualcosa a cui non si può rinunciare”.

In definitiva, Holl c’invita a rallentare e a ridimensionarci. Thinking, Building e Reflecting sono, infatti, le tre sezioni con cui è stata organizzata la recente mostra dei suoi lavori “Steven Holl: Making Architecture” (11 giugno – 22 settembre 2021, Museo di Architettura di Wroclaw, a cura di Nina Stritzler-Levine) e che certamente potrebbe diventare una sorta di vademecum durante la direzione di «Domus», così come un manifesto per l’architettura del presente e delle tante priorità a cui deve far fronte per continuare ad essere “pensante”, “edificante” e possibilmente “controcorrente”. Ce lo auguriamo.

 

 

 

Autore

  • Patrizia Mello

    Si interessa di teoria, storia e critica del progetto contemporaneo, argomenti su cui svolge attività didattica e ricerca, pubblicando numerosi articoli e saggi, e organizzando convegni. Tra le sue pubblicazioni: “Progetti in movimento. Philippe Starck (1997); “L’ospedale ridefinito. Soluzioni e ipotesi a confronto” (2000); “Metamorfosi dello spazio. Annotazioni sul divenire metropolitano” (2002); “Ito digitale. Nuovi media, nuovo reale” (2008); “Design Contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture” (2008); “Neoavanguardie e controcultura a Firenze. Il movimento Radical e i protagonisti di un cambiamento storico internazionale” (2017); “Firenze e le avanguardie Radicali” (2017); "Twentieth-Century Architecture and Modernity: Our Past, Our Present" (2022)

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Last modified: 27 Gennaio 2023