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Josephine BuzzoneWritten by: Professione e Formazione

Arata Isozaki (1931-2022)

Arata Isozaki (1931-2022)

L’eredità mondiale dell’«imperatore dell’architettura nipponica» tra Giappone, Asia e Occidente

 

Più di un centinaio i progetti tra musei, biblioteche, centri civici e polifunzionali a comporre un corpus di opere costruite in diversi continenti, oltre a numerose pubblicazionisaggi che hanno influenzato generazioni di professionisti, giapponesi e internazionali. Questo e molto altro ereditiamo da Arata Isozaki.

Nato a Oita, città a sud dell’arcipelago che scorge nella costa opposta Hiroshima, a causa dei bombardamenti della guerra da giovanissimo si è dolorosamente misurato con uno temi che poi ha maturato durante la sua attività di progettista e intellettuale, quello del ma (間) – pausa nel tempo (時間) e intervallo o vuoto nello spazio (空間): “La mia prima esperienza con l’architettura è stata l’assenza di architettura e ho cominciato a pensare a come le persone avrebbero potuto ricostruire le loro case e le loro città”.

 

Dal magistero di Tange ai primi progetti

L’attività di Isozaki come progettista inizia con il dottorato all’Università di Tokyo svolto sotto la guida dell’architetto e urbanista Kenzo Tange (1913-2005) che lo accoglie in URTEC studio e lo coinvolge nei preparativi della World Design Conference (WoDeCo) del 1960 e, successivamente, dell’Expo di Osaka ‘70. I contatti con il Metabolismo, sebbene da outsider, e l’influente collaborazione con Tange trovano una sintesi nella proposta megastrutturale “City in the air” e soprattutto nel progetto brutalista della Biblioteca della Prefettura di Oita (1962-66). Composto da un’ampia rete di elementi spaziali e strutturali, quali colonne, pareti e principalmente travi tubolari in cemento armato a vista, con il suo aspetto deliberatamente incompleto e in stasi suggerisce una sfida nei confronti degli ideali metabolisti. Nel 1996, l’edificio è stato convertito dallo stesso Isozaki in Art Plaza Oita, complesso artistico-culturale al servizio della città.

 

1963, lo studio Arata Isozaki & Associates

La realizzazione di questo progetto e la fondazione dello studio Arata Isozaki & Associates nel 1963 segnano la sua volontà di andare oltre le prime esperienze formative accademiche e professionali. Inizia così il percorso che porterà Isozaki ad essere indicato come il maggiore esponente della Japanese New Wave. Una sperimentazione di linguaggi architettonici occidentali combinati ai concetti della tradizione ed estetica giapponese emergeranno dalla sua ricerca progettuale con produzioni ogni volta inedite e differenti.

Il primo progetto d’impronta postmoderna con cui Isozaki si afferma è il Museo d’arte moderna di Gunma (1974). Qui la ricerca di nuovi valori architettonici si esplicita attraverso un modulo cubico di 12 metri prediletto come forma pura per generare una sequenza di contenitori (le sale espositive) e vuoti, a creare uno scenario esterno di ombre che costituisce l’unico collegamento della struttura con il resto del Gunma no mori Park dove sorge il museo. Anche il colore alluminio del rivestimento esterno e le semplici linee degli interni suggeriscono una sensazione di vuoto, di assenza dell’architettura, che nell’idea di Isozaki avrebbe aiutato il visitatore a focalizzarsi sull’arte.

A metà anni settanta, in un contributo dal titolo “Post-Metabolism” per “The Japan Architect” (ottobre 1977), facendo riferimento al famoso dipinto e tesoro nazionale “Wind God and Thunder God” dell’artista Tawaraya Sōtatsu (1570-1640), lo storico dell’architettura Hiroyuki Suzuki (1945-2014) e l’architetto Kazuhiro Ishii (1944-2015) associano Isozaki alla divinità del tuono – quella del vento al collega Kisho Kurokawa (1934-2007) – per indicarne la potente energia dei lavori che lo distingueva nel panorama del periodo.

Qualche anno più avanti è, dunque, il Tsukuba Center Building (1979-83) a divenire landmark del postmodernismo in Giappone. Nel centro civico, Isozaki mette in atto una decostruzione di elementi dell’architettura classica e modernista occidentale mediante quelli della tradizione giapponese. Cita la storia dell’architettura con un collage di riferimenti (tra gli altri, a Michelangelo, Piranesi e Ledoux) in un eclettismo schizofrenico – come lo ha definito – che però non tradisce l’aspetto funzionale del complesso, costituito da un hotel, sala da concerti, spazi commerciali, aree ricreative e una piazza.

 

La diffusione degli elementi tipici dell’architettura ed estetica giapponese

Sebbene, nel tempo, alcuni dei suoi connazionali si siano interrogati sulla giapponesità della sua produzione, il maestro del concetto di Japan-ness (nihon-teki no mono – things Japanese in character) ha contribuito alla diffusione di alcuni elementi tipici dell’architettura ed estetica giapponese mediante esposizioni come “Ma: Space-Time in Japan” del 1978 tra Parigi e Stati Uniti, e le pubblicazioni Japan-ness in Architecture (2006) e Katsura. La villa imperiale (2015).

A inaugurare la sua attività progettuale al di fuori del Giappone è il Museum of Contemporary Art (MOCA) di Los Angeles (1981-86), costruito dopo aver vinto le resistenze di una committenza più interessata alla firma dell’architetto che al progetto. Interrata di tre livelli rispetto ai sette totali che la compongono e organizzata in un rapporto di pieni e vuoti, la struttura in arenaria rossa e forme geometriche è posta volontariamente in contrasto agli alti edifici in acciaio e vetro circostanti.

La ricerca continua del significato dell’architettura di Isozaki non si arresta e, in alcuni progetti, se l’uso di elementi geometrici rimane ancora la matrice, il tono diviene più formale e successivamente più organico. Un esempio è l’Art Tower Mito dove, oltre alle tre sezioni che ospitano la sala concerti, il teatro e la galleria d’arte, s’innalza una solenne torre monumentale di cento metri, rivestita da triangoli di titanio a formare una struttura tetraedrica ed elicoidale che al terzo piano ospita un osservatorio. Il concept della torre che cresce all’infinito, e che riprende dall’Endless Column dello scultore Constantin Brancusi (1876-1957), è riproposto con un profilo ondulato e high-tech nell’Allianz Tower (2012-15) a Milano, progettata insieme all’architetto Andrea Maffei con il quale nel 2005 fonda uno studio in Italia. Nel nostro paese si menzionano anche il monolite rettangolare polifunzionale del Palasport olimpico per i Giochi di Torino 2006 e la molto discussa e mai realizzata pensilina degli Uffizi di Firenze, vincitrice di un concorso internazionale nel 1998 – non che le cose siano andate molto meglio con la stazione dell’Alta velocità di Bologna (2013), opera incompiuta seppur esito di un altro concorso vinto nel 2008.

 

Le sperimentazioni sui linguaggi

Tanti i progetti in altre città giapponesi

(più che a Tokyo) e nel mondo, ogni volta sperimentando un diverso linguaggio. Dunque, non uno stile ma molti, perché – come aveva affermato in un’intervista per la mostra “Time-Space-Existence” alla Biennale di Venezia 2018 – esso è da considerarsi come una soluzione strettamente connessa a un contesto e ambiente preciso. Ne è raffinato esempio il Museum of Ceramic Art (Ceramics Park MINO) a Tajimi (1996-2002), con la sua struttura di cemento e legno distribuita su quattro livelli che s’incastona organicamente tra la vegetazione. Qui Isozaki celebra l’importanza delle maioliche locali avvolgendo alcuni elementi dell’edificio in pietre colorate e frammenti di ceramica. Mentre la roof plaza costituisce l’ingresso al museo, la cascade plaza con l’acqua che scorre nelle pareti mette in risalto le ceramiche e il padiglione per la cerimonia del tè.

A livello internazionale, rivelano riferimenti alla natura il Zendai Himalayas Centre a Shanghai (2003-10) e il Qatar National Convention Centre a Doha (2004-10). Nel primo, un complesso polifunzionale, dei parallelepipedi cristallini poggiano su un blocco che al centro richiama le sinuose forme di una cava e, nelle facciate dei due blocchi laterali, i caratteri digitalizzati della lingua cinese. Caratterizzano, invece, la monumentale facciata in vetro del Qatar National Convention Centre, centro espositivo ed eventi per l’Education City Campus, due imponenti alberi Sidra, tipici della cultura qatariota e simbolo di nutrimento fisico e spirituale.

 

I premi

Dopo l’Architectural Institute of Japan Award vinto non ancora trentenne per la Biblioteca di Oita, l’estesa e caleidoscopica carriera dell’imperatore dell’architettura giapponese – come lo aveva definito il collega Tadao Ando nel 1985 – conta anche una medaglia d’oro RIBA (1986), il Leone d’oro alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia (1996) e il premio Pritzker nel 2019.

Il confronto con altri studi artistici, filosofici, scientifici e teorici, prova della sua vivacità intellettuale e della forte curiosità verso altre dimensioni e nuovi sistemi di valori, hanno guidato Isozaki a una continua ricerca di cambiamento. Ne sono testimonianza la sua scrittura autoriale e l’opera costruita in semplici forme plastiche e geometriche che in realtà celano la complessità e intensità di una cultura architettonica, progettuale e teorica, costruita per oltre sessant’anni tra Giappone, Asia e Occidente.

 

 

Autore

  • Josephine Buzzone

    Dottoranda in Architettura, Storia e Progetto presso il Politecnico di Torino, dove ha conseguito la laurea magistrale in Architettura per il Restauro e Valorizzazione del Patrimonio. La sua ricerca indaga la storia e le trasformazioni dell'architettura del dopoguerra in Giappone, con particolare attenzione ai processi di valorizzazione del patrimonio. Vive tra Italia e Giappone, dove ha trascorso un periodo come Visiting Research Associate presso l'Institute of Industrial Science dell'Università di Tokyo

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Last modified: 10 Gennaio 2023