Riflessioni sulla mania e sulla vacuità delle celebrazioni, a valle della tragedia nella capitale sudcoreana e del crollo del ponte pedonale in India
Persone, che si sono odiate sino a un giorno prima, che si ritrovano a festeggiare venticinque o cinquant’anni di convivenza, molti dei quali passati in un tetro silenzio; nazioni che vogliono ritrovare un’identità davanti a un mausoleo di settant’anni prima che contiene solo morti; calvi signori e panciute signore che, con aria un po’ spaesata, si ritrovano dopo trent’anni a guardarsi com’erano il giorno della maturità. Ci vuole un bello spirito macabro e un grande cinismo per trasformare il passare del tempo in una celebrazione! E quando le celebrazioni diventano improvvisamente serie, ci si accorge che, settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, nulla è svanito dell’orrore che genera ancora la scoperta dei campi di concentramento o delle fosse comuni.
La società che si vuole laica e secolarizzata celebra la festa della mamma, del papà, del nonno, della nonna, i compleanni del cane assunto a umanoide di casa, della vittoria della Nazionale di calcio, ecc. Essa celebra con lo stesso trasporto la Pasqua del Signore e il giorno in cui è uscita la prima auto (Fiat o Ford poco importa), la prima trasvolata dell’America e l’Ascensione di Cristo in cielo (sempre di nuvole si parla), il giorno in cui si è approvata la prima costituzione democratica a Philadelphia e una consultazione in rete in cui 37 signori, senza volto e senza parole, hanno cliccato un primo cittadino di città di oltre un milione di abitanti…
La società degli anniversari è implacabile. Nulla sfugge alla caccia sempre più compulsiva (chissà cosa ne direbbero Freud o Jerome Bruner!) di anniversari da trasformare non in festa, ma in ritualità: alla faccia della secolarizzazione o della postmodernità. Impauriti dal macabro memo – “sei polvere e in polvere ritornerai” – che risuona ormai solo nell’inconscio, ci si affastella per rimuovere quel rischio: la prima comunione di persone che non ne sanno neanche più il significato; il giorno della laurea, che magari hanno maledetto tutta la vita, facendo poi il cameriere e non l’architetto, il passacarte e non l’avvocato, il venditore porta a porta di farmaci e non il medico! Braccia strappate all’agricoltura, dove almeno avrebbero avuto la misura della loro fatica. Ma lo diceva il presidente Mao e allora quell’anniversario non può essere ricordato: non si possono celebrare intuizioni che diventano macabre…
Ma l’anniversario non risparmia la pubblicità del caffè (e i primi caroselli) o il Tourist Trophy (celebrato, un po’ grottescamente, per i morti che sulle sue strade si sono susseguiti), l’affondamento del Titanic, con le sue migliaia di annegati, la prima Olimpiade (povero De Coubertin) proprio quando l’affollamento di discipline la fa sempre più assomigliare a una festa di paese e un’occasione di promozione immobiliare e turistica. Oppure si celebra la scoperta della penicillina, proprio quando stiamo producendo batteri resistenti persino agli antibiotici più potenti; o i cinquecento anni dell’affissione delle tesi di Lutero che… non furono mai affisse; si celebrano lutti e conquiste con egual cinismo. Così, si festeggia la morte di un santo (non certo la sua dottrina) e magari s’innalza al cielo una reliquia, divenuta feticcio popolare (e poi magari rubata); o la scomparsa di un’intera squadra di calcio (che sia il Torino o il Manchester United poco importa) come lutto nazionale, con inevitabili scherni di pessimo gusto di clan avversari. Ma si arriva ben oltre.
Pur di celebrare, si partecipa a feste di cui non si ha la minima contezza: la festa del solstizio d’estate in Lapponia, il carnevale cinese a Pechino, il sorgere del sole nelle isole Tuamotu. Non conta che una festa significhi qualcosa per una religione o una società, se si può rendere magari patrimonio dell’umanità per improvvisare caroselli! Si arriva a falsare la storia, mentre le scansioni del tempo diventano fastidi.
La paura di… tornare in cenere prima di aver partecipato alla ritualizzazione di un tempo sempre più secolarizzato sembra generare convulsioni sempre più frequenti. S’importano anniversari – Halloween è solo il più grottesco – con la scusa che qualcuno si sentirebbe escluso (ovviamente i bambini), popolando le strade di quartieri e borghi europei d’improvvisate streghe e di ancor più improbabili folletti che non arrivano da Salem, mentre un carnevale che è la festa senza luoghi per definizione, si è creato il suo sambodromo permanente e per di più… griffato da un architetto diventato centenario [a Rio de Janeiro per firma di Oscar Niemeyer; n.d.r.]!
Si arriva a celebrare non la Marianna, bensì la nascita di chi l’avrebbe creata, mentre un edificio diventa un’icona ancor prima di essere finito, che sia la Villa Savoye o il Beaubourg. Il primo concerto dei Beatles o dei Doors ormai è oggetto di culti e riti, oltre che di un collezionismo delle sue copertine e non solo delle incisioni, ovviamente vendute in vinile e diventate più preziose della musica che trasmettono gracchiando.
Si dimenticano storie e contesti. Così si celebrano i cinquant’anni della Carta di Atene, accusata di ogni bruttura urbanistica del secondo dopoguerra, cinquant’anni dopo il 1933, quand’essa vide la luce nove anni dopo e ad opera di un solo architetto: Le Corbusier non a caso.
L’anniversario è l’occasione per la più straordinaria dimostrazione di come l’oblio abbia davvero poco a che fare con quello studiato da Paul Ricoeur, e di come la memoria sia davvero un terreno di falsazione ben più che d’identità. L’anniversario esclude, distingue, è la forma forse più radicale di un’identità che crea steccati, muri, diseguaglianze. Ma rispetto all’avvicinarsi della… polvere, ogni rimozione è lecita, anche quella che ci dice che è la nostra cultura a secolarizzare e banalizzare quasi ogni gesto dell’uomo.
Nulla sfugge alla malattia della memoria, che percorre stati, nazioni, localismi e internazionalismi, persone, associazioni, nazioni e organizzazioni sovranazionali. Il palmare e l’i-phone con i loro implacabili memo, personali e collettivi, s’illuminano e ricordano non solo appuntamenti che era bello scordare, ma anniversari, feste, fiere, celebrazioni, inaugurazioni, nascite e morti. Quasi per forza, da festa pagana, Halloween è diventata un rito privo di ogni aura. La messa domenicale, il Natale, la Pasqua cristiana, il ramadan o shabat o le tante feste mussulmane o ebree sono sovrastate, in un rumore di fondo, dall’occasionalità e dalla necessità di ricordare, togliendo qualsiasi aura alla celebrazione, diventata un’ossessione. Quando la sola cosa certa è che l’affollarsi di celebration’s days aiuta a dimenticare.
La celebrazione come cura della paura della morte era una medicina antica che arrivava ad annullare il passaggio tra vita e morte. Oggi anche il funerale è divenuto un’occasione laica, rumorosa e mondana, in cui s’intrecciano incontri, scambi d’informazioni, pettegolezzi, persino storie affettive che iniziano e finiscono quel giorno, pur di non misurarsi con quell’assenza e quel silenzio che Freud pone come straordinario incipit de L’elaborazione del lutto nel 1914-15.
Anche i cimiteri, dopo l’ossessivo affollarsi del 2 novembre, tornano a svuotarsi, a spegnere i troppi lumini, a far insecchire i fiori, a spogliarsi delle foto, a risuonare vuoti e abbandonati. Anche il corpo che abitiamo diventa terreno di battaglia del consumismo sfrenato: chirurghi che cercano di monetizzare ogni ruga e imperfezione, specchi fasulli d’inconsci seguaci di un Dorian Gray diventato l’eroe, neanche nascosto, di questo nostro tempo.
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Last modified: 31 Ottobre 2022