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Written by: Patrimonio

Architettura rurale, quali strategie per il recupero?

Architettura rurale, quali strategie per il recupero?

L’attenzione del PNRR su un patrimonio troppo spesso snaturato e la necessità d’interventi multidisciplinari dallo sguardo largo

 

A quasi novant’anni dalla straordinaria ricerca di Giuseppe Pagano e Werner Daniel sull’«Architettura rurale nel bacino del Mediterraneo» (questo il titolo della mostra alla Triennale di Milano del 1936), viene da chiedersi che cosa resta di questo patrimonio in Italia. Da allora ad oggi, come abbiamo utilizzato/modificato/trasformato le case rurali?

Questa riflessione appare ancora più cogente, alla luce del primo vero provvedimento volto alla salvaguardia di questi edifici e del loro paesaggio: ci riferiamo alla misura del PNRR denominata “Protezione e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale”. Tale meritevole provvedimento arriva decisamente tardi rispetto alla valenza di un patrimonio rurale che, già dal 1936, era stato “elevato” dal lavoro di Pagano a qualcosa che gli architetti potevano e dovevano guardare. Uno studio pionieristico che precedeva di quasi un trentennio il ben più noto Architecture without architects di Bernard Rudofsky, e che comunque non era un caso isolato nel Mediterraneo. Non va dimenticato, infatti, che in tutto quel bacino a partire dagli anni trenta gli architetti si rivolsero alle varie tradizioni abitative rurali per attingere “forme” per il moderno. Ad esempio, la stessa genesi dei cinque punti dell’architettura di Le Corbusier è legata al suo celeberrimo viaggio in Oriente, e all’incontro con il tipo edilizio della casa dei Balcani (cfr. Danilo Udovički-Selb, Les Balkans, genèse des «Cinq points de l’architecture, in L’invention d’un architecte, Le voyage en Orient de Le Corbusier, Fondation Le Corbusier, Parigi 2013).

 

Da Pagano e Daniel a Rossi e Grassi

In Italia l’esperienza di Pagano e Daniel mise in luce la straordinaria varietà del patrimonio rurale, che andava dagli esempi di architettura alpina in legno, ai casoni del Veneto, ai trulli della Puglia, passando per le grandi cascine lombarde e le masserie nei dintorni di Napoli. Si generò, insomma, un’importante presa di coscienza sul tema proseguita poi da Ezio Cerutti, Giancarlo De Carlo e Giuseppe Samonà, in occasione della nona Triennale di Milano del 1951, ancora con una mostra, stavolta intitolata «L’architettura spontanea».

Gli esiti di questo dibattito si sarebbero poi visti nel lavoro teorico di Saverio Muratori a Venezia, e in esempi di architettura popolare come al quartiere Tiburtino terzo a Roma o al villaggio La Martella a Matera, per poi proseguire in maniera più militante con Aldo Rossi e Giorgio Grassi. Le conseguenze dell’abbandono delle campagne però, contestuale al boom economico e proseguito per molto tempo, sono cosa nota: gli edifici rurali divennero contenitori vuoti e non più utilizzati (o solo marginalmente) per gli scopi per i quali erano nati.

 

Un’eredità da non snaturare

A partire dagli anni ottanta ci fu un lento ma progressivo ritorno a una scelta di vita lontana dalle città, col conseguente riattamento di alcuni edifici, ma è solo nelle ultime decadi che un più consistente numero è stato recuperato a fini turistici o come seconde case. Ed è proprio quest’ultima trasformazione che spesso ha completamente mutato il significato di tali edifici rispetto al paesaggio.

È nel lavoro teorico di Grassi che sta la chiave del problema odierno: come riutilizzare questi edifici salvaguardandone il rapporto con il paesaggio, e senza snaturarne le caratteristiche tipologiche espressione della loro ragion d’essere? Grassi spiega infatti come l’architettura rinnovi il suo insopprimibile realismo nel momento in cui ritrova un legame concreto con i suoi fondamenti, cioè con la tradizione. Vale a dire che nel progetto la definizione di architettura è quella di uno spazio adeguato, destinato ad evocare adeguatezza. Al contempo Grassi definisce le architetture rurali come esempi “in cui risaltano la semplicità e la chiarezza del fine, la precisione dei mezzi, la sicurezza delle soluzioni, dove ogni elemento risponde a un’attesa definita, per cui si è tentati di parlare anzitutto di idee giuste”. Gli esempi del mondo rurale quasi sempre riflettono una condizione naturale, non una condizione eccezionale; essi sono destinati a servire. E di qui si sviluppa un’idea di funzione molto ampia e generale, capace di accogliere non solo destinazioni diverse ma anche mutevoli significati.

Il recupero degli edifici rurali dovrebbe dunque essere oggetto di una progettazione congiunta e multidisciplinare, dove gli aspetti compositivo-tipologici si fondono con quelli di restauro-consolidamento, di miglioramento sismico ed energetico, e anche con punti di vista antropologici. Gli edifici rurali possono accogliere mutevoli significati, ma devono mantenere il legame con il territorio al quale appartengono, tanto più che mai come adesso stiamo vedendo gli effetti devastanti della sua mancata manutenzione.

 

Il bando del PNRR

Prorogato fino al 30 settembre, esso dà la possibilità di presentare progetti interdisciplinari articolati su tre tipologie d’intervento di risanamento conservativo e recupero funzionale d’insediamenti agricoli, progetti di manutenzione del paesaggio rurale e allestimento di spazi da destinare a piccoli servizi a sfondo culturale.

È auspicabile che questa misura sia solo la prima di una lunga serie per la riprogettazione di un patrimonio che è costituivo del paesaggio e del nostro modo di vivere sia in Italia che in tutto il Mediterraneo. Mai come oggi esso dev’essere recuperato come merita per non continuare a cementificare, perchè che gli edifici rurali per secoli sono stati espressione di un vivere in armonia con la natura.0

Immagine di copertina: casa in località Isoli, Scarperia e San Piero (Firenze – foto di Serena Acciai)

 

Il caso del Mugello

In Mugello, lembo nord-est della provincia di Firenze, vediamo alla micro-scala quello che è avvenuto nel resto della Toscana, e presumibilmente anche altrove. Qui il paesaggio rurale presentava una particolare declinazione del tipo della casa toscana dovuta al clima più severo e allo storico aspetto d’incastellamento anche dei nuclei rurali, in quanto terra di confine. Nel corso del tempo le grandi fattorie storiche avevano disegnato il territorio con le loro strutture coloniche “satellite”. Tali nuclei permangono ancora oggi, ma spesso si trovano in stato di abbandono e talvolta in vendita. La vicenda delle case vernacolari ha seguito anche qui, a grandi linee, l’iter già descritto. Negli ultimi vent’anni, varie case rurali notevoli sono state riconvertite a fini abitativi ma spesso (per fortuna non sempre), snaturandone completamente i caratteri fondativi. Le case coloniche, un tempo erano abitate da 3/4 famiglie, ora sono “condomini di campagna” con 12/14 miniappartamenti, dove anche l’area esterna recintata e suddivisa nulla ha più a che fare con lo spazio condiviso dell’aia, vera e propria piazza dei nuclei colonici originari. Anche dal punto di vista energetico, ancora fino a pochi anni fa, in fortissimo ritardo rispetto al Protocollo di Kyoto, si sceglievano soluzioni obsolete come il gpl quale fonte di riscaldamento. Soprattutto nel post-pandemia qualcosa è cambiato e ora si vedono, almeno per il miglioramento energetico, soluzioni al passo coi tempi.

 

 

Autore

  • Serena Acciai

    Architetta e ricercatrice con esperienza sul patrimonio multiculturale del Mediterraneo. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Composizione architettonica e urbana presso l'Università di Firenze, con la prima tesi in Italia su Sedad Hakkı Eldem. Da allora ha proseguito questa linea di lavoro presso l'Institut National Histoire de l'Art di Parigi e come assegnista presso l'Università di Firenze. Nel 2018 ha pubblicato il volume "Sedad Hakkı Eldem, an Aristocratic Architect and More" (Firenze University Press). È stata titolare d'incarichi d'insegnamento presso il Politecnico di Milano, l’Università Federico II di Napoli e l’Università di Firenze. Attualmente è ricercatrice associata all’IPRAUS/AUSser dell’ENSA Paris-Belleville e vincitrice del XVI premio Bruno Zevi con il saggio storico-critico "The Ottoman «Sofa» House: A Modern Idea of Living" (Letteraventidue)

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Last modified: 6 Luglio 2022