Visite al nuovo Museo dell’emigrazione Italiana nella Commenda di San Giovanni di Prè e a Palazzo Rosso nell’imminente riapertura. Ma il decentramento culturale resta una chimera
GENOVA. Anno 2022, un mese prima delle elezioni amministrative, due musei. Uno nuovo e uno “restaurato”, se così possiamo definirlo. L’ironia è d’obbligo in una città dove il decremento demografico è una costante e la cultura non è centrale nella vita dei genovesi, se non per il centralissimo Palazzo Ducale.
Il tanto decantato policentrismo dei quartieri, nonostante il forte carattere identitario, soffre dell’assenza di un’offerta culturale diffusa, un’anomalia che si manifesta da decenni, operata da destra e sinistra. Manca l’idea di una città unita e il sindaco Marco Bucci, supereroe e ricandidato, ne rappresenta l’emblema. La cultura non può essere sempre ed esclusivamente concentrata nel centro, è un errore politico.
Il MEI non convince
Così il nuovo Museo dell’emigrazione italiana, che gode del riconoscimento di museo nazionale, viene allestito nella Commenda di San Giovanni di Prè [nell’immagine di copertina – © Enrico Testino], ospitale per i pellegrini che al tempo delle crociate andavano in Terrasanta, luogo cerniera tra la città vecchia e il porto. Tuttavia non si comprende la scelta di questo spazio per ospitare il museo dell’emigrazione, quando avrebbe avuto più senso collocarlo nell’ambito portuale ricco di spazi, conservando invece la memoria della Commenda e della sua storia.
Il MEI è l’esito di un bando indetto dal Comune nel 2018 vinto da Gnosis progetti per ospitare un museo impostato sulla multimedialità, realizzata dalla società specializzata ETT. Un restauro di uno spazio complesso che tuttavia non convince per le soluzioni banali nell’allestimento, se non per la parte multimediale che coinvolge lo spettatore nei temi del museo, dove l’aspetto installativo “artistico” prevale sull’allestimento museale tradizionale.
Un discorso a parte merita la scelta di chiudere il loggiato superiore della Commenda, tenendo il vetro a filo delle colonne. Una scelta azzardata, avvallata dalla Soprintendenza, che non convince, soprattutto se confrontata con le vetrate di Palazzo Rosso, realizzate da Franco Albini, dove la scelta di tenere il vetro arretrato rispetto alle colonne, evita l’effetto schermo che si percepisce quando si legge il prospetto della Commenda dalla via Gramsci.
Come stanno le opere museali di Albini
A partire dal 2019 l’amministrazione comunale e i suoi uffici, in particolare la Direzione lavori pubblici, ha avuto un atteggiamento ostile nei confronti delle opere museali di Albini. Si è avviata una stagione di bandi, grazie al Patto per Genova istituito dal governo Renzi, che hanno riguardato il Museo di Sant’Agostino, realizzato con Franca Helg, e il Museo di Palazzo Rosso.
Nel caso del Museo di Sant’Agostino, dopo un controverso bando che chiedeva la sostituzione dei serramenti esterni con nuovi che, nel rispetto del disegno originario, ne migliorassero “[…] l’isolamento termico […] la semplicità nel disegno in analogia all’esistente…”, grazie al lavoro della Soprintendenza si è impedita la distruzione dell’opera, in attesa di sapere se il museo cambierà allestimento oppure verrà valorizzato quello albiniano.
Invece a Palazzo Rosso, già alterato fin dai primi anni duemila con l’intervento di Libidiarch per un altro adeguamento funzionale, nonostante le premesse nefaste contenute nel capitolato di appalto (bando vinto dallo studio Guicciardini e Magni), per rendere efficienti energeticamente gli spazi museali, il risultato appare meno impattante. Nella visita di cantiere concessa al Giornale (l’inaugurazione è prevista il 7 giugno, giusto in tempo per l’ennesima marchetta elettorale del sindaco uscente) si percepisce finalmente uno spazio ripulito dai segni del tempo, con la ritinteggiatura delle pareti mantenendo le tonalità originarie, con il ritorno del feltro rosso albiniano a coprire gli eclettici pavimenti; scelta non scontata che Albini aveva ideato insieme a Caterina Marcenaro, per garantire un’uniformità spaziale di ambienti dagli stili diversi.
La Soprintendenza ancora una volta ha guidato il progetto impedendo a Comune e progettisti di stravolgere l’esistente, imponendo il restauro delle lampade originarie, anche se il mantenere la luce a lume di candela prevista da Albini per vedere i quadri, dalle tonalità molto scure, appare oggi una scelta troppo ideologica. Una nota di merito va ai restauri della Sala della grotta nel secondo piano ammezzato (al cui interno è stata recuperata anche l’alcova), e a quelli della Sala della primavera affrescata da Gregorio De Ferrari, grazie al meticoloso lavoro coordinato dalla storica dell’arte Raffaella Besta, direttrice dei Musei di Strada nuova.
Così Genova ritrova la voglia di museo, nella speranza che anche i quartieri possano avere i loro hub culturali identitari.
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Last modified: 24 Maggio 2022