La settima edizione del ciclo “Nature” propone al MAXXI la mostra “Sacro e profano” che ha per protagonista l’architetto ticinese
ROMA. “Come si fa una chiesa dopo Picasso?”: questo lo stimolante quesito con cui Mario Botta ha aperto la breve conferenza di presentazione della mostra dal titolo “Sacro e profano”, inaugurata al MAXXI il 7 aprile e in programma fino al 4 settembre. L’architetto svizzero (Mendrisio, 1943) è infatti il protagonista della settima edizione del ciclo di rassegne monografiche “Nature”, curato da Margherita Guccione e Pippo Ciorra, che ogni anno coinvolge un progettista contemporaneo nella composizione di un “autoritratto” da allestire negli spazi plasmati da Zaha Hadid Architects.
11 opere si raccontano
Il titolo della mostra è chiaro: nello spazio raccolto della Galleria Gian Ferrari si raccontano infatti sette celebri progetti di edifici di culto che si relazionano con quattro architetture destinate a istituzioni civili, altrettanto importanti, tutti realizzati. A rappresentare il sacro vengono illustrati, tra gli altri, la chiesa di San Giovanni battista a Mogno (1986-96), la Sinagoga Cymbalista e centro dell’eredità ebraica di Tel Aviv (1996-98) e della chiesa del Santo volto a Torino (2001-06), mentre il tema del Profano si racconta attraverso progetti come il Mart di Rovereto (1988-02) o il centro termale Fortyseven a Baden (2009-21), solo per citarne due.
I dispositivi di narrazione sono efficaci: splendide foto in bianco e nero a grande formato, suggestivi disegni a mano libera e raffinati plastici in legno nei quali la luce dell’allestimento che penetra dall’alto ci rende partecipi dell’abilità con cui Botta utilizza l’illuminazione naturale per plasmare lo spazio.
L’esposizione è arricchita da alcuni elementi fortemente scenografici: la riproduzione in scala 1:2 dell’abside della chiesa di Mogno con il suo sapiente gioco cromatico; una serie di prototipi lignei di vasi dalla figurazione scultorea; il grande arazzo “Anatolia” realizzato da Atelier Moret su progetto di Cleto Munari; il padiglione-studiolo in legno posto al centro dello spazio che sta a simboleggiare l’attitudine alla ricerca e allo studio. A completamento, il documentario di Francesca Molteni che racconta l’opera del maestro ticinese attraverso testimonianze di voci illustri, tra cui quella di Enzo Cucchi, artista con cui Botta ha collaborato per la cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro (1990-96), anch’essa in mostra.
La sacralità del costruire…
Il tema per Botta non rimane tuttavia circoscritto agli edifici di culto, ma rappresenta una condizione connaturata del fare architettura. Egli afferma infatti che “Costruire è di per sé un atto sacro, è un’azione che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura; la storia dell’architettura è la storia di queste trasformazioni”. È su questo campo che il confine tra il sacro e il profano diventa labile: grazie alla sua coerenza formale, Botta è infatti stato in grado di restituire la ieraticità dell’architettura grazie all’utilizzo della luce come matrice generatrice della forma e di geometrie nette e cariche di espressività. Per l’architetto svizzero è inoltre l’atto fondativo del progetto architettonico a portare con sé l’idea del sacro, ovvero tracciare un perimetro, un gesto che isola il piccolo mondo che il progettista è chiamato a organizzare interpretando il tempo storico in cui si trova.
Ed è proprio sul ruolo dell’architetto come esegeta del proprio tempo che Botta, riallacciandosi alla domanda iniziale, s’interroga sul come progettare un edificio alla luce della storia dell’arte e dell’architettura, nello specifico delle avanguardie artistiche. La sua approfondita conoscenza dei maestri del Novecento (Le Corbusier, Louis Kahn, Carlo Scarpa), ma anche dei protagonisti della storia meno recente (come testimonia l’omaggio al San Carlino di Francesco Borromini sul lungolago di Lugano dei primi anni 2000), gli ha permesso d’indagare la forma nel corso della sua lunga carriera con una dimestichezza e uno spirito critico che non hanno subìto l’influenza delle mode.
Durante la presentazione della mostra romana Botta ha infatti ragionato sul suo rapporto con la storia, inteso come una sorta di “fede”: “Se ben riflettiamo, il territorio della memoria è una realtà viva entro la quale siamo chiamati a operare; il passato non è nient’altro che la forma più autentica del nostro tempo”. Nell’occasione, il suo dialogo con Guccione (coordinatrice del progetto “Grande MAXXI”) e Giovanna Melandri (presidente della Fondazione MAXXI) tocca vari temi, anche di attualità. Partendo dalla situazione bellica nell’Europa dell’est, Botta ci racconta di uno dei suoi ultimi progetti: a Leopoli in Ucraina, il centro parrocchiale della Divina Provvidenza stava per essere completato alla vigilia dello scoppio della guerra e la comunità di don Orione, per cui è stato progettato il Centro, ha deciso di non abbandonare l’edificio e di fare in modo che proseguissero i lavori, anche grazie all’aiuto della comunità. È lo stesso Botta ad affermare infatti che “Al di là delle risposte alle esigenze liturgiche resta, per l’architetto, la responsabilità di una sintesi progettuale tale da far sì che un edificio di culto costituisca anche un luogo d’identità e d’immagine”.
… e la costruzione della committenza
La conversazione ha affrontato altre interessanti questioni: alla nostra domanda su come si possa maturare una cultura della committenza l’architetto ticinese risponde che è essenziale che le commesse pubbliche siano più trasparenti possibili, di modo da premiare gli architetti veramente capaci. Botta si riallaccia inoltre al tema, già posto da Melandri in riferimento al caso del “Grande MAXXI”, del concorso di progettazione come strumento per raggiungere un’elevata qualità, lontano dalle logiche di mercato che spesso mortificano la ricerca progettuale e l’attività professionale.
Ma oggi non è più sacro il suolo naturale?
Al quesito su come si conciliano le sacralità dell’architettura e della natura, Botta ci spiega infine che la contrapposizione tra ambiente naturale e costruito non è nient’altro che un equivoco: il segno dell’uomo nel paesaggio è infatti una ricchezza e rappresenta l’elemento geometrico di controllo rispetto all’organicità della natura. I due ambiti non sono quindi in conflitto ma si pongono in uno stato di complementarità, grazie alla trasformazione da “una condizione di natura a una condizione di cultura”.
Ed è proprio negli edifici in mostra che è possibile riconoscere quali e quanti rapporti spaziali l’architettura di Botta instaura con il paesaggio naturale e culturale che lo circonda. Egli afferma infatti che “L’opera costruita appartiene al territorio, che nel suo insieme, con la sua storia e la sua memoria, appartiene a sua volta all’opera. È dentro questa continua «contaminazione» tra manufatto e territorio che deve essere valutata l’architettura. È attraverso la forza dei reciproci rapporti spaziali che nasce la realtà di un nuovo paesaggio”.
Immagine di copertina: © Enrico Cano
Mario Botta. Sacro e profano
8 aprile – 4 settembre 2022
Museo MAXXI
A cura di: Margherita Guccione e Pippo Ciorra
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concorsi , Mario Botta , MAXXI , mostre , roma
Last modified: 12 Aprile 2022