Riceviamo e pubblichiamo una riflessione sulle possibilità di un ritorno a forme di nomadismo
Urbicidi condotti dalle guerre, urbofobia contemporanea prodotta dalla crisi pandemica del Covid. La città è ritornata a essere un luogo insicuro. Dentro queste catastrofi immense, chi vive fuori dalla città ha ancora qualche possibilità di salvezza, crede di sentirsi meno in trappola. Le catastrofi producono meno impatto sulla sicurezza individuale se ci si allontana dai grandi centri urbani. La maledizione della città è radicata nell’idea atavica umana legata al possesso di territorio, nel concetto oramai obsoleto e pericoloso dello stato-nazione. Hannah Arendt ci ricorda che il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme e svanisce appena si disperdono… La fondazione delle città, continua, “è quindi il requisito materiale più importante perché vi sia potere”.
È vero, oggi il potere potrebbe essere conquistato anche senza la forza dell’aggregazione fisica e dell’esistenza di confini nazionali. Ma le cose si complicano per chi crede di riuscire a imprigionare un popolo in un determinato luogo.
Se tutti potessimo continuamente migrare in base ai nostri desideri/bisogni, insieme alle nostre case, nessun despota avrebbe il controllo dei nostri corpi, delle nostre cose, dello spazio fisico. Bisognerebbe allora ritornare alle origini della vita esistenziale nomadica. Si tratta di una condizione umana che oggi può essere possibile. Secondo l’archeologo Jerry Moore i primitivi hanno sempre utilizzato le capanne, anche prima della colonizzazione delle caverne, concludendo che non fu la nascita dell’agricoltura a rendere l’uomo sedentario, ma l’aumento di cose in suo possesso. Gli oggetti che l’uomo moderno accumula, e gli spazi della città che frequenta sempre meno in forma fisica (banche, negozi, musei, uffici, scuole), ora si stanno sempre più smaterializzando spostandosi nel cyberspazio. La città fisica sta diventando un cimitero di cemento in cui la popolazione è costretta a vivere in modo stanziale, minacciata da possibili disastri che potrebbero velocemente annientarla.
Se l’uomo si disfa degli oggetti che lo portarono a divenire sedentario, facilmente potrà ritornare a essere un individuo nomadico. Un tempo l’abitare e il viaggiare erano divisi dall’incisione che ha separato per secoli la polis dal territorio naturale selvaggio (irrazionale) che si trovava subito dopo le mura. Oggi è possibile costruire piattaforme governative, auto-organizzazioni di comunità anche vivendo in una condizione nomadica o semi-nomadica, se non perfino erratica, grazie soprattutto all’architettura digitale del cyberspazio.
Le guerre diverranno meno cruente, combattute con armi meno letali (le atomiche non avranno più ragione di essere utilizzate: su cosa lancerebbe i suoi siluri un despota se non esistono più popolazioni ammassate, se non esiste più un nemico circoscrivibile sul territorio?). Questo consentirà la preservazione del territorio naturale e la stessa specie umana. I combattimenti s’intensificheranno e slitteranno sempre più nel cyberspazio, che sarà il vero nuovo campo di battaglia dell’uomo post-moderno.
Immagine di copertina: casa mobile della tribù dei Dolgani (Siberia; © Jimmy Nelson, 2018)
About Author
Tag
guerra , lettere al Giornale , nomadismo
Last modified: 21 Marzo 2022