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Edifici alti a Milano: italiani alla riscossa?

Edifici alti a Milano: italiani alla riscossa?

Nel capoluogo lombardo, all’inflazione di firme estere si sta contrapponendo l’interpretazione del genius loci ad opera dei progettisti di casa

 

Il ripensamento della progettazione nelle città dopo lo choc della pandemia (e il suo impatto su ogni aspetto della socialità) riguarda tutte le scale d’intervento, ma è particolarmente vistoso per una tipologia estrema: quella degli edifici alti, siano essi destinati a uffici o a residenze. Sono infatti contenitori di tante persone che interagiscono, “villaggi verticali” plurifunzionali che permettono un risparmio di suolo da attrezzare opportunamente. Ma sono anche icone urbane per sottolineare quelle centralità più significative (in particolare nelle città la cui morfologia è più elusiva alla lettura dell’utente comune).

Archiviate in fretta le apocalittiche dichiarazioni “basta grattacieli, forieri di contagi” si è sviluppata una nuova lettura in chiave di rigenerazione urbana, partendo dall’opportunità che questi catalizzatori di attività sofisticate ridiano senso e vivibilità ad aree amorfe, trascurate, quando non del tutto dismesse. E si è rivalutato quanto i grattacieli, anche nelle città storiche apparentemente più significanti di quelle di nuova formazione, contribuiscano a segnare nuove identità (simboliche sì ma soprattutto funzionali e sociali): in altre parole, in tutti i casi in cui il loro posizionamento (e raccordo con il contesto) è felice perché contribuisce alla vivibilità urbana (allontanando nostalgie di ritorni ai borghi natii).

Milano è ovviamente nell’occhio del ciclone perché, per accreditarsi come città mondiale (prima e dopo Expo 2015), ha voluto ripensarsi e ha eretto grattacieli con edifici di contorno, in particolare nelle due più grandi aree dismesse (le ex ferrovie Varesine e l’ex quartiere fieristico trasferito a Rho-Pero), ravvivando il primato di fine anni cinquanta (i luccicanti Pirelli e Galfa e la storicizzante torre Velasca).

Ma da questa rincorsa ha escluso i progettisti italiani, rivolgendosi alle grandi società di architettura straniere, forti non solo di dimensioni e qualifiche che rassicurano i grandi investitori, soprattutto internazionali (subentrati agli immobiliaristi locali) ma accompagnate dall’aurea di creatività data dall’appellativo (di derivazione cinematografica) “archistar”. Ed ecco, dopo il palazzo della Regione Lombardia di Pei Cobb Freed, la torre Unicredit di César Pelli, il “Diamantone” di Kohn Pedersen Fox, la torre Solaria di Arquitectonica, punti focali del nuovo quartiere Porta Nuova (con, defilata eccezione, il “Bosco verticale” di Stefano Boeri, poi pluripremiato); e, nel quartiere CityLife, il “dritto” di Arata Isozaki, lo “storto” di Zaha Hadid, il “curvo” di Daniel Libeskind. Già a rischio di effetto “luna park”, i due quartieri saranno completati dal rifacimento del “Pirelli 39” di Diller Scofidio + Renfro (peraltro al loro primo grattacielo) e dallo “sdraiato” del modaiolo Bjarke Ingels Group.

In risposta, la riscossa della “scuola milanese” è iniziata. Al decimo convegno “Tall Buildings”, ospitato a luglio alla Triennale, Antonio Citterio, autore con Patricia Viel della “torre Faro” per A2A ha affermato: “Se la Velasca è di per sé una grande icona, ritengo che oggi a Milano non possiamo permetterci altri trofei”. E ne ha inserito il progetto nel ridisegno dell’asse pedonale viabilistico dallo scalo di Porta Romana al centro storico. Mario Cucinella ha presentato la torre UnipolSai come esperimento verso un futuro a emissioni vicine allo zero. Gianmaria Beretta ha detto che la sua torre Milano [nell’immagine di copertina] è un progetto di matrice razionalista con volumi volutamente regolari che facilitino il rapporto con il costruito all’intorno. E Paolo Asti, a proposito del restauro conservativo della torre Velasca, ha posto tra gli obiettivi quello di renderla permeabile alla città con spazi fruibili per tutti.

Con i concorsi che si stanno aggiudicando sia per i sette scali ferroviari dismessi, sia per i vuoti più irrisolti della metropoli (piazzale Loreto per tutti), sia per contornarla di nuove parti di città vivibili nel raggio di quindici minuti e tecnologicamente innovatrici (il distretto Mind al posto dell’ex Expo in primis), i progettisti italiani riprendono a interpretare il “genius loci” di cui sono depositari. E l’Università li affianca lanciando master dedicati al costruire in altezza come fa, per prima, a Venezia l’Iuav.

 

Autore

  • Aldo Norsa e Dario Trabucco

    Aldo Norsa, già docente ordinario di Tecnologia dell’architettura all’Università Iuav di Venezia, associato al Politecnico di Milano, incaricato all’Università di Firenze, a contratto all’Università di Chieti. Rappresentante italiano nel CEBC (dal 1995), membro del comitato italiano dell’ERES (2004 e 2010), del comitato tecnico-scientifico di Assoimmobiliare (dal 2005), del comitato scientifico-culturale del “Giornale dell’Ingegnere” (dal 2005), del comitato scientifico de “L’Ufficio Tecnico” (dal 2008), del comitato scientifico di “Paesaggi infrastrutturali” del Poligrafo (dal 2012); coordinatore del gruppo di lavoro per l’aggiornamento delle norme tecniche presso il Consiglio superiore dei Lavori pubblici (2011 e 2012); socio onorario dell’AICI (dal 2012); membro del comitato scientifico di Lumimed (dal 2016). Dario Trabucco (Venezia, 27 Settembre 1980) è Professore Associato in Tecnologia dell’Architettura all’Università Iuav di Venezia. Conseguita la laurea in Architettura con Lode nel 2004 e il dottorato di ricerca nel 2009 diventa Ricercatore nel 2012 e Professore Associato nel 2018. Nel 2013 è Visiting Research presso l’Illinois Institute of Technology. Si occupa di edifici alti e mobilità verticale, declinando le sue ricerche nel campo dell’innovazione di prodotto e della sostenibilità ambientale.

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Last modified: 28 Luglio 2021