Provocazioni, denuncia, ironia, speranza e ottimismo: la mostra principale del curatore Hashim Sarkis coglie nel segno, anche se con qualche reticenza o velleità artistica di troppo
VENEZIA. Concepito in tempi non sospetti dal curatore Hashim Sarkis, preside della School of Architecture and Planning al Massachusetts Institute of Technology di Boston, lo slogan della 17. Mostra internazionale di architettura, How will we live together?, non poteva rivelarsi più azzeccato. Sono dunque state rispettate le attese, per una Biennale che s’annunciava assai engagé, a colpi di pane e sociale, parlando di spazio & società come non sarebbe dispiaciuto a Giancarlo De Carlo? Diciamo di sì, almeno in parte. Certo, in quanto a impegno, resta insuperato il Reporting from the Front, curato due edizioni fa da Alejandro Aravena, a cui talvolta l’attuale rassegna sembra fare il verso; ma siamo ben oltre i frivoli o criptici Freespace delle Grafton (16° edizione) e Common Ground di David Chipperfield (14°), che manco più ce li ricordiamo.
Numeri, provenienze, temi
114 partecipanti da 46 Paesi
: pochi i nomi dei soliti noti, mediamente giovani, circa la metà donne (Alleluja). In quanto a provenienza, spadroneggiano le Americhe (molti anche dal Sud), Europa tallonata dal Medio Oriente (Sarkis è libanese), Cina e Giappone nelle retrovie. Italiani in ordine sparso: nei gruppi misti, oppure connazionali che insegnano o lavorano all’estero (tra gli altri Martino Tattara e Pier Vittorio Aureli di studio Dogma, dal Belgio, o, dall’Olanda, Matilde Cassani o Giovanni Bellotti e Alessandra Covini di studio Ossidiana).
Molti (forse troppi?) gli artisti, ma non mancano sinergie con graphic designer, registi, geografi, sociologi, scienziati, antropologi, scenografi, musicisti, persino un avvocato. Molto rappresentato il mondo dell’università (per noi c’è lo IUAV, qui di casa), che, in due sezioni speciali fuori concorso (“Stations” e “Co-Habitats”), squaderna ricerche non prive d’interesse (“Many Houses/ Many Worlds”, sugli impatti e le implicazioni “planetarie” di un piccolo cantiere domestico, solo per citarne una).
Bene la declinazione del tema generale alle diverse scale. Sono infatti 5 le sezioni in cui si articola l’esposizione (3 all’Arsenale e 2 ai Giardini): si parte dal microcosmo rappresentato dall’individuo (“Among diverse Beings”), per giungere alla scala planetaria (“As one Planet”) e oltre, fino al cosmo, passando dalle aggregazioni di piccoli nuclei (improprio chiamarle famiglie; “As new Households”), alle comunità locali (“As Emerging Communities”), alla situazioni di confine (non solo politico, ma nella più ampia accezione geografica; “Across Borders”).
Medium
Trionfano gli allestimenti
, buoni per il pubblico dei non addetti ai lavori e per riempire lo spazio delle Corderie, straordinario quanto prevaricante. Talvolta, in nome della teatralità, a qualcuno scappa la mano, e il tutto risulta incomprensibile anche dopo aver letto il minuscolo pannello, non sempre di facile reperimento. Così, si finisce per non badarvi e affidarsi all’impatto emozionale, riducendo il tutto a un défilé. Talaltra, il rimando al soggetto della narrazione (un progetto, una storia, un’azione avvenuti o in corso da qualche parte del mondo) è talmente lasciato tra parentesi che se ne perde contezza. A colmare il divario tra evocazione e messa in scena, le fotografie potrebbero aiutare, ma paiono quasi del tutto bandite dalle scelte allestitive.
Messaggi
Lasciata (fortunatamente) ai margini la prospettiva disciplinare, la chiave di lettura è quanto meno duplice: si ragiona in termini di ecologia dei sistemi e di antropologia culturale. Ecco allora spiegate le relazioni tra corpi e spazi, le protesi come integrazioni ai corpi, i continui rimandi alla biologia, alle lezioni che si possono trarre dalle api (Tomas Libertiny) come dai funghi (grandi mattatori della scena, insieme a terricci, muffe, alghe; si vedano le installazioni di Mitterberger e Derme, o di Pasquero e Poletto). Si parla ripetutamente di relazioni organiche (anche tra macchine e ambiente), di adattamento, di convivenza (anche con altre specie, non solo animali), fino a occuparsi di comunità microbiche (David Benjamin). Una lezione, quella della convivenza con ospiti non sempre desiderati, che abbiamo appreso nostro malgrado dalla pandemia, e che conviene non scordare.
Il metro delle cose, dunque, si sposta oltre la sfera dell’umano (come evocato da “Future Assembly”, “mostra nella mostra” nel Padiglione centrale ai Giardini), per cercare alleanze strategiche con la natura, lavorando insieme e non contro di essa (Self-Assembly Lab, “Building with Wawes”, per salvare le Maldive dalla sommersione), apprendendone le modalità, per rintuzzare le tante devastazioni dell’Antropocene. Il “nessuno si salva da solo” di papa Francesco acquista dunque un’accezione ancora più ampia.
In questo quadro rientrano le capacità del progetto di dare risposte alle tante emergenze, da quelle climatiche a quelle umanitarie o ambientali. Particolare attenzione, dunque, è rivolta ai contesti fragili: siano essi quelli geografici (su tutti Amazzonia e Antartide), oppure quelli dell’accoglienza dei profughi (Atelier RITA), delle comunità informali o dei territori dell’abbandono. E qui alcuni allestimenti artistici colgono nel segno, quando mettono alla berlina le nostre idiosincrasie sull’efficientismo (Charlesworth e Parsons), oppure denunciano drammatiche escalation (come lo scioglimento dei ghiacci interpretato da Arcangelo Sassolino in “Antarctic Resolution”, o l’inquinamento dei mari da Pinar Yoldas in “Hollow Ocean”). Con un particolare apprezzamento: pur essendoci pienamente dentro, raramente ricorre l’abusato termine “sostenibilità”. Servono fatti, non parole.
Esperimenti
Accanto a speculazioni teoriche, petizioni di principio, denunce, ironie e provocazioni, sono richiamate anche esperienze concrete in vari ambiti: dalla tecnologia al cantiere, dalla rigenerazione urbana al ripristino ambientale, dalla cooperazione alla partecipazione. Tra le altre, spicca la ricerca tedesca del gruppo di Achim Menges e Jan Knippers sui materiali fibrosi applicati all’edilizia: “Maison Fibre” è un involucro autoportante costituito da una ragnatela di compositi in fibre di vetro e di carbonio, solidarizzati da resine epossidiche. Una struttura altamente dematerializzata, dalla densità d’area di soli 9 kg/mq, che pesa 50 volte meno della lecorbusieriana Maison Domino, non richiede stampi o casseforme per la posa in opera e non produce sfridi. Rivoluzionario.
Oppure, il lavoro degli elvetici Gramazio Kohler Architects sulla flessibilità funzionale di edifici “plug-in”, a partire da progettazione computazionale e fabbricazione digitale. O, sul rapporto tra spazio (domestico, semi-pubblico o pubblico) e identità comunitaria, i progetti della libanese Lina Ghotmeh per la tipologia del condominio a Beirut, del cinese Meng Fanhao per il villaggio di Dongziguan, della venezuelana Elisa Silva per il barrio La Palomera a Caracas, dei tedeschi raumlaborberlin per la Floating University a Berlino. Mentre dalla martoriata Striscia di Gaza si levano segni di speranza nella vicenda della fattoria di Kutzazh narrata dalla Foundation for Achieving Seamless Territory.
Gli stimoli che giungono dalla sezione finale al Padiglione centrale abbozzano scene dal mondo che verrà: mondi possibili o mondi capovolti. Così, ci viene in mente che siamo tutti sulla stessa barca, e siamo di passaggio. E potremo anche estinguerci. Come estinto, a causa dell’attività coloniale, è l’ibisco di montagna delle Hawaii, la cui fragranza è stata riprodotta in laboratorio e a noi qui offerta da Christina Agapakis, Alexandra Daisy Ginsberg e Sissel Tolaas (artiste, biologhe, autrici; tre donne, guarda caso…) nella poetica quanto minimale installazione “Resurrecting the Sublime”. Nonostante le mascherine, la percepiamo intensamente; speriamo che ci serva…
Immagine di copertina: Maison Fibre, Institute of Building Structures and Structural Design, University of Stuttgart (Achim Menges e Jan Knippers, @ Fabio Oggero)
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allestimenti , biennale venezia , Biennale Venezia 2021 , cambiamento climatico , catastrofi , mostre , progetti umanitari , venezia
Last modified: 26 Maggio 2021