Riceviamo e pubblichiamo una lettera sulle ineludibili questioni che dovrà affrontare il prossimo Consiglio Nazionale; in primis, la sempre maggior distanza, dei professionisti e degli Ordini, dall’architettura
L’architettura, intesa come la disciplina che si occupa di plasmare lo spazio in cui muoversi, lavorare, abitare – in una parola vivere – è l’essenza, l’urgenza, l’ossessione del lavoro dell’architetto. Questo assunto, se mai è stato vero in passato, non lo è oggi.
Per un insieme di fattori (alto numero complessivo degli architetti, dimensione della torta da dividere, crisi perdurante, provvedimenti nazionali che incentivano declinazioni tecnicistiche della materia), la compagine degli architetti italiani (150.000 unità, circa il 27% di tutti gli architetti europei), per sopravvivere si sta reinventando specializzandosi in una moltitudine di servizi professionali più o meno collaterali alla disciplina dell’architettura. Tale processo, che ha subito un’accelerazione negli ultimi 10/20 anni, è tuttora in atto; sono consigliere dell’Ordine degli Architetti di Torino da due mandati (8 anni d’impegno con diverse deleghe e ricoprendo alcune cariche tra cui quella di presidente della Fondazione per l’architettura) e posso affermare che in questo periodo l’Ordine è cambiato in misura rilevante: sono cambiati i rapporti, le modalità, le rappresentanze, gli interessi e le forze in gioco.
Il progressivo spostamento delle attività quotidiane degli studi di architettura verso occupazioni di ordine burocratico, tecnico-normativo e legislativo fa sì che gli interessi e le attenzioni della maggior parte dei professionisti (e quindi dei voti per la rappresentanza) si concentrino ineluttabilmente intorno ad aspetti che sarebbero di dettaglio, di complemento al progetto, tralasciando quelli di natura generale ed indebolendo, sempre più, la riconoscibilità e l’incisività del ruolo dell’architetto rispetto agli altri professionisti e ai soggetti decisori. Cercare diversi sbocchi lavorativi per fronteggiare una contingenza complicata è un naturale atto di “sopravvivenza” professionale che non può e non deve essere considerato un difetto. Gli effetti che questo processo produce sono tuttavia deleteri in quanto determinano la difficoltà, per la comunità degli architetti, ormai così sfaccettata e multiforme, di offrire l’immagine di una professionalità riconoscibile e originale e di elaborare proposte di lungo termine da sottoporre al legislatore.
Ci troviamo in sostanza di fronte a un paradosso che porta gli stessi architetti, anche attraverso i loro organi di rappresentanza, a corroborare la tesi secondo la quale fare l’architetto oggi non significherebbe più governare il progetto nel suo insieme, curandone il disegno complessivo e l’impatto sull’uomo e sull’ambiente, bensì occuparsi sempre più e prevalentemente di aspetti tecnici e specialistici quali ad esempio la stratigrafia di un muro, la gestione di un cantiere, il piano di sicurezza o il valore di un certo cespite. Tutte attività importanti e necessarie, intendiamoci, ma che potrebbero essere soprattutto prerogativa di altre figure professionali della filiera delle costruzioni le quali, per contro, dovrebbero evitare di occuparsi di progettazione architettonica. In sostanza, un po’ di ordine tra i diversi attori, altrimenti, come ampiamente dimostrato, si mischiano i contorni, le specificità e le competenze dei vari professionisti (architetti, ingegneri, geometri, geologi, periti, etc.) in un magma informe in cui tutti possono occuparsi di tutto e in cui, quindi, è sempre più difficile orientarsi: in questo magma, inoltre, i meno attrezzati per spuntarla sono gli architetti.
La questione nasce e viene alimentata dall’indebolimento progressivo della catena di produzione e trasmissione di valori ispirati all’architettura che dovrebbe collegare i professionisti al governo nazionale attraverso i vari livelli di rappresentanza (provinciale, regionale, interregionale, nazionale). Nello specifico, non occupandosi più in misura preponderante di architettura, gli architetti non hanno più interesse affinché i propri rappresentanti siano sensibili alla materia (anzi); e se i rappresentanti non risultano sensibili e preparati alla disciplina, non avranno interesse ad attrezzarsi per ideare misure o presentare provvedimenti legislativi finalizzati alla produzione di architettura di qualità; se questa catena s’interrompe, si affievolirà ulteriormente la possibilità d’incentivare la produzione di architettura sul suolo nazionale.
Le rappresentanze locali sono sempre più caratterizzate da una modalità di fare politica purtroppo molto attuale, intrisa di avventatezza e opportunismo, schiava della ricerca del consenso immediato e inesorabilmente viziata nelle decisioni. Si tracciano così percorsi affrettati, caratterizzati dalla continua rettifica di decisioni già prese, deviazioni obbligate imposte da soggetti teoricamente estranei al processo o strade sbarrate a priori. Questo movimento frenetico verso la ricerca della novità e dell’annuncio ad effetto porta spesso, a mio avviso, ad occuparsi di temi che non appartengono alla sfera di competenza dell’istituzione in questione, tralasciando invece argomenti specifici legati all’architettura.
La misura di quanto l’architettura di qualità sia, ormai da molte decadi, un tema invisibile ai radar di chi ci governa a livello nazionale risulta evidente ogni qual volta venga ideato e formulato un provvedimento di tipo economico per l’edilizia. Il recente “superbonus” è solo un’ulteriore conferma di quanto questo Paese sia mosso da una forza motrice burocratica/tecnicistica e di quanto la classe dirigente degli architetti non riesca a incidere sulle politiche nazionali in materia di costruito e di paesaggio.
Sono consapevole che la spirale di cause ed effetti in cui noi architetti ci siamo imprigionati disponga di un’inerzia tale che i generosi tentativi di correggerne le distorsioni compiuti da alcuni membri della comunità, negli ultimi anni, siano tendenzialmente risultati infruttuosi. Esiste però un punto in cui gli effetti nocivi di questo avvitamento diventeranno inaccettabilmente dannosi per il Paese e, conseguentemente, saremo costretti a riformulare i parametri per agire su quel bene comune che è il paesaggio. Il Consiglio Nazionale degli Architetti (di cui si conoscerà a breve la nuova compagine) in testa, e i vari organi di rappresentanza locale poi, avranno una chiara e inevitabile responsabilità a riguardo.
Senza Architettura gli architetti (tutti gli architetti) sono superflui: la regina Architettura è morta, lunga vita alla regina.
Immagine di copertina: la regina Elisabetta come Zuggy Stardust (Banksy, 2012)
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Cnappc , lettere al Giornale
Last modified: 16 Aprile 2021