Per conservare la memoria dell’opera di Pier Luigi Nervi a Firenze occorre sottrarsi all’egemonia del tout est patrimoine, che diventa mero collezionismo, e tornare a progettare
N.d.R. Dopo sei mesi di straordinaria mobilitazione internazionale per salvare lo Stadio Franchi di Firenze, minacciato di demolizione da un progetto di trasformazione portato avanti dalla ACF Fiorentina, in base a un emendamento del Decreto Semplificazioni del 16 luglio 2020, il 15 gennaio il Mibact ha risposto alle richieste della società calcistica e del Comune di Firenze sulla trasformazione dello stadio riconoscendo l’opera di Pier Luigi Nervi come monumento identitario di Firenze e mettendo una serie di paletti alla trasformazione. Il sindaco Dario Nardella il 19 gennaio ha poi annunciato d’impegnarsi a portare avanti un progetto di sviluppo urbano per l’intera area del Campo di Marte, nel quale inserire il restauro e ripristino dello stadio, operando così anche il rilancio dell’intero quartiere (leggi gli articoli dedicati alla vicenda).
La grande confusione che si è generata sullo stadio Berta, oggi stadio Franchi, non è solo l’esito di una delle tante baruffe fiorentine. La vicenda mette in luce quali sono i nodi non sciolti del restauro del moderno.
Il primo, non ovvio, è proprio sul valore aggiunto che avrebbe il moderno rispetto al contemporaneo. Se moderno avesse il valore che nel Talmud e nella tradizione giuridica giustinianea si dà alla parola “testimonianza”, di che cosa sarebbe esclusiva testimonianza il Berta? Perché non è sufficiente che lo stadio sia compreso in una lista (di monumenti storici o di architetture sottoposte a tutela) per sancirne la conservazione? Forse è testimonianza di una tecnologia, di una forma, di un movimento artistico (e anche architettonico), di un autore, legando così l’unicità all’autorialità. Oppure segna l’inizio della costruzione della fama del personaggio che gli consente di ottenere il riconoscimento che la cerchia ristretta degli ingegneri strutturali di quegli anni aveva difficoltà a riconoscergli? La risposta è tutt’altro che indifferente, proprio nel legittimare un atto prima di conservazione, poi di restauro. Il legame più forte è indubbiamente quello che si fonda sull’autorialità. Ma è sufficiente?
Il secondo nodo è il più intricato. Un’architettura, qualsiasi architettura, anche la più iconica, segue il cambiamento della sua funzione. Basti pensare a quante “Mezquite” si sono via via sovrapposte e quante volte quella che noi vediamo è stata “mutata”. Solo in questi ultimi trent’anni, nel tempo in cui non solo tutto diventa patrimonio ma, come scrive Pierre Nora, si passa “dall’archivio all’emblema”, possiamo immaginare che un’architettura esista senza temporalités diverse. Così quella che fu la sorte della Villa Savoye, dal 1965 al 1997, cioè essere più volte restaurata, a condizione che il pubblico non la potesse visitare, sembra ribaltarsi, come un destino arcigno, su tutte le architetture cosiddette moderne. Ma davvero qualcuno pensa che questi ultimi trent’anni possano mutare l’ontologia dell’architettura, dalla capanna che Laugier mette in copertina del suo Essai, in poi? Davvero il nostro destino è quello di girovagare tra testimonianze – di qualsiasi avvenimento esse siano – sparse per il mondo? Questo è collezionismo, o meglio è una forma di valorizzazione economica di collezioni a scopi d’investimento, di turismo (oggi suona un po’ grottesco, visto che non si potrebbe uscire di casa) o, peggio ancora, d’identità (di un popolo o di una comunità, oggi queste parole hanno perso di potere). Oggetti destinati così a essere sempre più simili a feticci in una società che ha definitivamente ribaltato il rapporto tra società ed economia, rendendo Karl Paul Polanyi un profeta.
Conservare il Berta non si può più, per fortuna. Giovanni Spadolini è già intervenuto a rendere temporale quell’architettura. Si può decidere che quell’architettura, visto che testimonia un autore e un momento dialogico tra una corrente artistica e la progettazione strutturale, possa avere un’altra destinazione. Il passato non può limitarsi a “divertire il presente”, come scrive François Hartog. Per conservare il Berta-Franchi ci sono precise precondizioni.
Esiste come una nottola inacidita di Minerva il problema sempre più grave della crisi fiscale dello Stato italiano. Dovremmo forse tutti tornare a leggere James O’ Connor. Senza una destinazione che almeno risponda a un bisogno sociale non ”protetto”, pensare che lo Stato italiano possa caricarsi una testimonianza senza destinazione, appare quasi l’ennesimo esempio della distanza che esiste tra i professionisti della memoria e la realtà della società italiana. Per questo l’idea di una rovina non è poi così da scartare, pur con tutto il sarcasmo che la proposta contiene. Certo, sarebbe più interessante trasformare un frammento di una stagione fondata su miti andati tutti a schiantarsi proprio contro la mano invisibile del mercato, in una proposta di un’economia sociale di mercato o, più semplicemente, in una proposta che vedesse la società sapersi sottrarre all’egemonia del tout est patrimoine e tornasse a… progettare. Non per il calcio, però! Il mondo forse più immerso nell’egemonia del valore economico che oggi ci sia dato conoscere, l’alienazione del gioco come creatività forse più emblematica dei nostri giorni.
Liberarsi del calcio è per il Berta-Franchi e per i suoi innumerevoli e variegati supporter, un inaspettato dono. E forse sarebbe necessario ripartire dalla citazione dell’antropologo Guy Nicolas che apre il saggio sul dono di Marcel Mauss: “Il dono sta al mercato come la festa sta alla vita, il lusso all’utile, il sacro al profano, la prostituta alla sposa”. Si restaura il moderno forse se a questo significato del dono si sa dare un qualche spessore. In caso contrario si torna solo al collezionismo come nuova forma di economia che fa dei simboli il proprio, privilegiato, terreno di caccia.
Immagine di copertina: Stadio Franchi, foto di Matteo Cirenei per il progetto Finding Pier Luigi Nervi (2015-in corso), courtesy Pier Luigi Nervi Project Association
A Firenze, lo stadio è in mostra
Realizzato nel 1932, allo stadio Berta-Franchi è dedicato uno degli approfondimenti della mostra itinerante «Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida», a cura dell’Associazione Pier Luigi Nervi Research and Knowledge Management Project e del Centre international pour la ville, l’architecture et le paysage di Bruxelles, in collaborazione con il MAXXI, il Centro studi e archivi della comunicazione dell’Università di Parma e il Laboratorio Nervi Politecnico di Milano (Lecco). Dal 25 gennaio al 25 febbraio, la mostra fa tappa alla Manifattura tabacchi (via delle Cascine 33; lun-ven ore 10-17; ingresso gratuito contingentato in base alle misure anti Covid-19) col titolo «Pier Luigi Nervi e Firenze: la struttura della bellezza», con la co-produzione di Manifattura tabacchi, in collaborazione con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Firenze Pistoia e Prato, e il patrocinio di Comune e Università di Firenze, Fondazione Giovanni Michelucci, Ordine e Fondazione degli Architetti di Firenze, Docomomo Italia e società italiana per il restauro dell’architettura. In mostra anche il progetto di trasformazione della stessa Manifattura tabacchi (costruita nel 1933-40 a firma dei tecnici del Monopolio, ma con probabili apporti di Nervi), avviato nel 2016 secondo il masterplan elaborato da Concrete, Sanaa, Studio Mumbai e q-bic, che prevede un nuovo quartiere urbano e un centro per la cultura contemporanea, l’arte e la moda. A margine dell’esposizione, l’omaggio video «Cinema Nervi», rilettura dell’opera del maestro attraverso i linguaggi del digitale, a cura del collettivo Parasite 2.0.
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firenze , pier luigi nervi , restauro del moderno
Last modified: 21 Gennaio 2021