Alcuni casi internazionali mostrano le prime sperimentazioni sull’integrazione tra edifici e natura produttiva agricola
Nell’era del’Antropocene, il motto Homo faber fortunae suae riecheggia, a distanza di 2000 anni, come un monito attuale agli effetti dell’azione umana sull’ambiente. Le contingenti condizioni di emergenza dovute al Covid-19 e le pressioni sempre più aspre sull’ambiente e le sue risorse, mostrano come le nostre città siano anche un fragile baluardo dell’umanità. A seguito del lockdown abbiamo assistito nelle principali città europee, da Milano a Parigi a Barcellona, all’attuazione di misure straordinarie per rispondere alle necessità di distanziamento fisico che, allo stesso tempo, hanno contribuito a migliorare la qualità urbana ridisegnando – anche in modo temporaneo – le nostre strade, piazze e corti. Le ricadute spaziali evidenziano ambienti più confortevoli che hanno incentivato l’accelerazione verso concetti di “quartieri a misura d’uomo” (15-minute neighbourhood), più verdi e salubri. Nuove vie pedonali e incremento del verde sembrano essere il primo passo verso una riconquista della natura in città. E se da una parte assistiamo ad un inverdimento urbano, frutto d’interventi tattici – anche temporanei – che considerino il valore ecosistemico del verde, con una maggiore attenzione all’ambiente diretta verso una “bucolica” città, dall’altra vediamo alcune prime sperimentazioni d’integrazione tra natura produttiva e architettura. I casi seguenti rivelano come anche quest’ultima sia in continua mutazione, sebbene non alla stessa velocità dei cambiamenti ambientali ed economici: Natura vincit omnia.
Agri-architetture urbane
Non solo il verde è un elemento architettonico tra l’estetica e la funzionalità, come nei progetti di Stefano Boeri Architetti e, ancor prima, di Édouard François (Flower Tower, 2004), ma racchiude un’idea di natura produttiva urbana che si esprime anche attraverso servizi sistemici, a beneficio di ambiente e cittadini, e agricoltura. Risalgono ai primi anni 2000 le teorie del Continuous Productive Urban Landscape di Andre Viljoen e Katrin Bohn (Università di Brighton), i quali vedevano nel tessuto urbano un potenziale agricolo. Due decadi dopo, cambiamenti climatici e crescita urbana – oltre alla recente situazione pandemica – hanno portato a sviluppare alcune teorie, come la Self-sufficient city di Vicente Guallart (1963), che riconsiderano l’attività agricola nella nuova dimensione urbana. Guallart, infatti, risponde alle nuove esigenze urbane con il suo ultimo concept di Self-sufficient city post-Covid (settembre 2020) per la città di Xiong’an (Cina), dove natura (agricoltura e verde) diventano parte integrante del metabolismo urbano. Ma già intorno agli anni 2010, alcuni progetti sperimentavano l’integrazione tra architettura e agricoltura. Le ibridazioni accolgono la nuova funzione urbana, in un primo momento, adattando spazi sottoutilizzati o dismessi, come i casi di Lufa Farms a Montréal, o The New Farm a L’Aia (studio Space & Matter), dove i tetti piani inutilizzati di strutture industriali diventano spazi produttivi tutto l’anno, grazie all’aggiunta di volumetrie vetrate – le serre tecnologiche – che offrono un ambiente controllato ideale per la produzione; o, ancora il progetto Nature Urbaine, ovvero la più vasta fattoria urbana sui tetti dell’area fieristica di Parigi Porte de Versailles.
Queste mutazioni architettoniche in alcuni casi occupano spazi già esistenti, in altri casi generano nuove tipologie urbane. Come il progetto attualmente in cantiere della Cité maraîchère a Romainville (studi Ilimelgo + Secousses) che, con una superficie di oltre 2.000 mq, sarà il nuovo polo produttivo per l’agricoltura urbana e per la coesione sociale della cittadina alle porte di Parigi. La novità sta nel combinare la tipologia della serra con quella di un edificio industriale, che fa eco alla storia di Romainville. La Cité maraîchère è costituta da due corpi edilizi duplicati per ottimizzare le facciate a vista: la torre più alta è modellata sull’altezza dell’edificio antistante, mentre la seconda torre rispecchia le dimensioni della vicina casa di riposo, per integrarsi alla morfologia del contesto. Ogni edificio presenta un cavedio centrale per la circolazione di aria e luce nel cuore della serra (presente anche un ambiente sotterraneo per la coltivazione dei funghi). Le nuove volumetrie accoglieranno altre funzioni quali laboratori per studenti e cittadini, un ristorante, una caffetteria e un polo aperto alla comunità.
Un altro esempio è l’edificio multifunzionale (studio Kuenh Malvezzi con Atelier Le Balto e Haas Architekten, 2019) a Oberhausen, città tedesca della Renania Settentrionale/Vestfalia. Come nel precedente caso, questo fabbricato dall’ordinario rivestimento in mattoni e dalle rigide geometrie teutoniche integra le funzioni agricole e di ricerca (affidate al Fraunhofer Institute for Environmental Safety and Technology) incluse nell’involucro opaco della serra, a quelle più tradizionali di un edificio per uffici. Da segnalare inoltre la corte interna, arricchita da un giardino verticale che si sviluppa lungo lo scheletro in acciaio delle terrazze e del vano scale.
L’elemento naturale diventa partecipe in modo simbiotico al metabolismo circolare dell’edificio negli interventi The Green Gouse a Utrecht (studio Cepezed) e Uchi a Denver (studio Tres Birds; foto di copertina). In entrambi, agricoltura, architettura e ristorazione si fondono nella medesima struttura: come in un piccolo mondo circolare, il cibo prodotto nella serra connessa in un unicum all’edificio, viene venduto e cucinato nella sottostante area ristorante.
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compatibilità ambientale , coronavirus , magazzini industriali , rigenerazione urbana
Last modified: 9 Novembre 2020
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