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William J.R. CurtisWritten by: Professione e Formazione

Così ricordo De Carlo, protagonista del Novecento

Così ricordo De Carlo, protagonista del Novecento

Una testimonianza, tra storia dell’architettura e memoria degli incontri personali, nel centenario della nascita di Giancarlo De Carlo

 

Giancarlo De Carlo è nato nel 1919, subito dopo la prima guerra mondiale, è cresciuto durante la dittatura fascista, ha vissuto la distruzione di massa della seconda guerra mondiale in Italia e affrontato la confusione politica e il dilemma dell’architettura durante la ricostruzione. È emerso da questo caos con un deciso impegno per migliorare la condizione sociale attraverso l’architettura e l’urbanistica. Si è districato attraverso le complesse ideologie del dopoguerra alla ricerca di un’espressione democratica adatta ad una società industriale in rapida evoluzione e urbanizzazione. Nel processo di realizzazione di nuove infrastrutture, case popolari e istituzioni educative, De Carlo ha esplorato le tensioni tra città e campagna e affinato la capacità di leggere il contesto come palinsesto di fasi storiche stratificate. La sua visione dell’architettura ha interessato sia gli sviluppi che la critica delle lezioni primarie dei maestri moderni.

Come molti della sua generazione, De Carlo ha rifiutato l’urbanistica dogmatica e diagrammatica dei CIAM (Congressi internazionali di architettura moderna) con le sue separazioni “funzionaliste” tra vita, lavoro, ecc., nell’aspirazione opposta d’interpretare realtà sociali e luoghi particolari attraverso un’espressione spaziale più complessa. Questo lo ha messo in sintonia con altri architetti associati al Team X, sebbene egli stesso insistesse nell’affermare che ogni individuo legato a questo gruppo possedeva il proprio pedigree e linguaggio architettonico. De Carlo ha condiviso con Aldo van Eyck un’ossessione per gli “spazi di relazione”. Come il suo contemporaneo danese, Jørn Utzon (non affiliato al Team X), egli ha cercato di considerare i singoli edifici come topografie abitate o paesaggi sociali. De Carlo ha rifiutato l’ostentato storicismo di alcuni suoi contemporanei italiani ma non ha mai perso di vista l’importanza del passato come fonte d’ispirazione. Attraverso il filtro di Le Corbusier e Alvar Aalto, egli ha cercato fondamento nella tradizione, includendo sia il paesaggio urbano vernacolare che storico.

Uno dei “laboratori” dell’architettura italiana del dopoguerra è stato sicuramente la riqualificazione di Matera. Il nuovo modello di “villaggio” di Ludovico Quaroni, La Martella, era finalizzato a dare nuove case ai poveri abitanti dei Sassi, in migliori condizioni sanitarie sulla sommità della collina. L’espressione architettonica di questa sperimentazione sociale e agricola è frutto di un adattamento alla condizione rurale del linguaggio “neorealista” del suo quartiere Tiburtino a Roma, con l’impiego di caratteri vernacolari e tetti inclinati per la chiesa centrale e i gruppi di case. A metà anni ’50 ai margini di Matera furono costruiti diversi insediamenti residenziali; tra questi, il quartiere Spine bianche progettato da De Carlo. In questo caso, le residenze collettive erano tessute in blocchi paralleli con telai in cemento armato, tamponamento in mattoni e tetti sporgenti in tegole. Questa ricerca di linguaggio popolare ha significato un “rigetto” dell’ormai consunto modernismo ufficiale dei CIAM ed era probabilmente debitore dell’opera di Franco Albini, in particolare il quartiere INA-Casa a Parma (1950). Ma De Carlo è stato meno capace di esprimersi con telaio, pareti e copertura: a Matera si è impegnato nella sfida di dare alle sue aspirazioni sociali un’appropriata forma architettonica.

Il progetto che proietta De Carlo nella scena internazionale è il complesso delle residenze studentesche per l’Università di Urbino, il Collegio del colle (1962-66). Egli ha concentrato le funzioni comuni negli elementi cilindrici sulla sommità della collina e poi li ha collegati alle singole stanze aperte sul paesaggio attraverso percorsi pedonali discendenti che offrono una vista spettacolare sul paesaggio e sulla città storica di Urbino. De Carlo è riuscito con l’astrazione a riproporre in termini moderni la morfologia di una tradizionale città di collina. Probabilmente è in debito con Aalto nella configurazione a ventaglio aderente ai contorni della collina, mentre deve alla Maison Jaoul di Le Corbusier l’impiego del mattone e del cemento armato. Nel mio libro Modern Architecture Since 1900 ho inserito il progetto per Urbino in un capitolo sulle trasformazioni critiche dell’Unité d’habitation di Marsiglia di Le Corbusier, come la Siedlung Halen vicino a Berna progettata da Atelier 5. L’opera contemporanea più vicina è probabilmente l’Università di East Anglia di Denis Lasdun (1962-64), che egli ha definito “un paesaggio urbano”, un termine che potrebbe essere applicato ugualmente al Collegio del colle. In entrambi i casi, le residenze studentesche sono trattate come una città alternativa legata alla natura.

 

Io & lui

De Carlo si è affermato sulla scena internazionale attraverso le sue attività con il Team X, i suoi scritti ed editoriali (sulla rivista «Spazio e società»), grazie ai numerosi incarichi di visiting professor e ai seminari estivi della sua ILAUD (International Laboratory of Architecture & Urban Design) a Urbino e Siena. Parlava inglese molto bene e questo lo ha aiutato a diffondere le sue idee a livello internazionale. L’ho incontrato la prima volta a Cambridge, Massachussets, nel 1981 quando era visiting professor al Dipartimento di Architettura del MIT ed io insegnavo al Carpenter Center for the Visual Arts a Harvard, l’unico edificio di Le Corbusier in Nord America, di cui ho scritto nel mio primo libro (Le Corbusier at Work, 1978). Catherine ed io vivevamo in una polverosa casa in legno nascosta tra gli alberi ai margini di un sentiero a nord di Cambridge. La domenica mattina eravamo soliti organizzare una “open house”, una sorta di brunch continuo in cui le persone andavano e venivano. Era un forum informale sullo stato corrente dell’architettura ed è stato in una di queste occasioni che Giancarlo è venuto a trovarci. Si sentiva a casa in quell’atmosfera conviviale ma seria. Credo che egli trovasse il MIT noioso e un po’ provinciale.

Giancarlo univa un grande fascino ad un’intelligenza brillante. Era in qualche modo in grado di conversare su diversi argomenti senza mai togliere la pipa dalla bocca. Vestiva in modo casual ed elegante (ricordo una giacca rustica con tasche profonde) e aveva l’aria dell’ufficiale navale. Le nostre conversazioni coprivano molti campi, incluso Le Corbusier (su cui egli aveva scritto un libro nei tardi anni ’40) e lo stato dell’architettura italiana. Egli detestava la Biennale di Venezia del 1980, “La presenza del passato”, con i suoi pastiche di facciate classiche. Era certo, come lo ero io, che la migliore architettura moderna sia stata quella capace di trasformare i fondamenti del passato. Era scettico sull’idea di tipologia di Aldo Rossi che si traduceva in rigido formalismo geometrico. Era in disaccordo con le idee di Manfredo Tafuri, ed era contento di sapere che avevo scritto una critica feroce del testo Architettura contemporanea di Tafuri e Francesco Dal Co nel «Journal of the Society of Architectural Historians» all’inizio del 1981. Era evidente l’entusiasmo di Giancarlo per i valori duraturi dell’architettura, così come il suo scetticismo sulle tendenze e mode di passaggio. Quando parlava di luoghi, specialmente in Italia, era come se fossero vecchi amici. Era consapevole delle onde lunghe della storia e del tempo che si deposita sulla città e sul paesaggio.

De Carlo considerava la città italiana tradizionale un fantastico laboratorio e una fonte di conoscenza di per sé. Ci ha insegnato a “leggere” il tessuto storico e a trasformarlo. Questo era senza dubbio uno degli obiettivi centrali della scuola estiva ILAUD, in principio a Urbino, poi a Siena. Quest’assemblea annuale aggregava studenti e professori da tutto il mondo in un contesto piacevole, dove strada e piazza si trasformavano in una sorta di aule didattiche all’aperto. A metà anni ’80, Catherine ed io siamo stati invitati a Siena ed io ho parlato di abitazioni collettive berbere del nord-est del Sahara, esaminandole attraverso lenti multiple e in relazione alla cultura e al paesaggio. Credo che Giancarlo fosse piuttosto sorpreso di questa incursione nelle oasi del Marocco meridionale e nelle complesse radici e significati di queste impressionanti forme urbane e case fortificate in terra cruda. Mentre eravamo a Siena si è svolto il Palio: una dimostrazione in sé del modo in cui uno spazio civico può trasformarsi in teatro urbano per la rievocazione di un antico rituale.

Nel 1989 lo ritrovai ancora, questa volta in un contesto professionale molto formale. Ero a Londra nella giuria del concorso per la Compton Verney Opera House e riuscii a persuadere gli altri membri a incontrarlo per un colloquio. Nella giuria c’erano vari grandi signori e signore, e l’incontro si tenne in una lussuosa residenza a Mayfair. Questo non era affatto il mondo di Giancarlo e la giuria, che oscillava tra tradizionalismo e post-moderno, ha trovato il suo lavoro piuttosto spartano e rigido. Nonostante le tendenze arretrate di quei tempi, nel 1993 a De Carlo fu conferita la Medaglia d’oro del RIBA. A metà anni ’90 ho pubblicato la terza edizione di Modern Architecture Since 1900, questa volta aggiungendo il suo Magistero di Urbino, un sottile innesto nel tessuto della città storica. Questa è stata certamente una delle più chiare prove della sua filosofia urbana e architettonica. Era anche un omaggio al quattrocentesco Palazzo ducale di Luciano Laurana e Francesco di Giorgio, che egli ammirava per le sue preziose collisioni di spazi e frammenti diversi.

De Carlo resta nella mia memoria per il suo essere architetto impegnato e sensibile nei confronti della società, della storia, della città e della natura. Le sue opere parlano da sé e contengono lezioni durature per coloro che trovano il tempo di studiarle. Non sono oggetti isolati, ma inserti spaziali complessi nella stratificazione di livelli e frammenti che interagiscono tra città e paesaggio. Entrano in relazione con il luogo senza imitarlo. Stabiliscono nuove coordinate, così da proporre sia innovazione che continuità. Il suo capolavoro è senza dubbio il Collegio del colle a Urbino, specialmente la prima fase, un’opera che distilla la sua visione sociale in una chiara gerarchia di spazi, materiali e forme. Dal punto di vista dell’oggi, con il suo neoliberismo, i suoi grattacieli contorti e il suo spazio urbano privatizzato, De Carlo si erge come sentinella di principio architettonico e responsabilità pubblica. La sua eredità ricorda il tempo in cui l’architettura italiana si fondava su più solide basi intellettuali, sociali e politiche.

© William J.R. Curtis 2020 – traduzione di Antonello Alici
In copertina, Giancarlo De Carlo che disegna mentre fuma la sua pipa in Grecia nel 1972 (Archivio privato Anna De Carlo)
L’autore ringrazia Anna De Carlo e l’Archivio Progetti Iuav, nella persona di Teresita Scalco, per la gentile assistenza nella ricerca delle immagini e per averne concesso la pubblicazione

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Autore

  • William J.R. Curtis

    Storico e critico dell'architettura, pittore e fotografo. Le sue più note opere sono "Modern Architecture Since 1900" (traduzione italiana) e "Le Corbusier: Ideas and Forms", entrambe considerate dei classici. Collabora regolarmente con numerose riviste internazionali e ha ricevuto svariati riconoscimenti. Tra le pubblicazioni recenti, "Abstraction y Luz/ Abstraction and Light", catalogo della retrospettiva dei suoi disegni, pitture e fotografie tenuta all'Alhambra di Granada nel 2015

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Last modified: 8 Aprile 2020