Le recenti proposte di alienazione e trasformazione urbanistica su importanti aree pubbliche dismesse aprono a una riflessione più ampia sulle opzioni d’uso che riguardano una riserva di beni territoriali fondamentali
Il futuro urbanistico delle aree demaniali dismesse di Bologna e Milano va esaminato guardando oltre il contenzioso giudiziario che si è recentemente sollevato, dal momento che l’impatto sull’intera città delle trasformazioni ipotizzate per questi grandi complessi imporrebbe di considerarli, mutuando le parole di David Harvey, come un “segno concentrato della più vasta entità spazio-temporale di cui sono parte”. Il destino di questo patrimonio andrebbe quindi valutato in riferimento a un’estesa contabilità sociale e ambientale, che guardi oltre ai soli esiti strettamente legati al disegno urbano e sia invece capace di ponderare i molti interessi in gioco, salvaguardando al contempo la riserva di beni pubblici che questi luoghi custodiscono.
Una ricostruzione delle vicende di Bologna e Milano permette poi un ulteriore ampliamento di prospettiva, che attiene ai cambiamenti che segnano la fase attuale delle politiche territoriali di molte città italiane. Il fatto che queste due città, da sempre portatrici di stili di pianificazione diversi, recentemente mostrino di adottare scelte urbanistiche simili, sembra riconducibile ad alcune condizioni comuni e generalizzate: il ruolo strategico ed i caratteri costitutivi dei beni territoriali trattati; il ciclo attuale dell’economia pubblica e del federalismo demaniale; le forme di decisione amministrativa, nelle quali s’inserisce il ruolo inedito di alcune società pubbliche nazionali (l’Invimit, la Cassa depositi e prestiti – Cdp, la FS sistemi urbani Spa), che si collocano in modo trasversale tra istituzioni e mercato. Per dare chiarezza alle posizioni in campo, sembra opportuno trattare la questione a partire dai caratteri intrinseci di queste risorse territoriali pubbliche, dal momento che, secondo le riflessioni di Mancur Olson (La logica dell’azione collettiva, 1983), è il valore collettivo di un bene a dover determinare i comportamenti dei soggetti che su di esso hanno responsabilità, non il contrario.
Il caso degli scali ferroviari a Milano: scambiare i mezzi con i fini
Il dibattito sulle aree ferroviarie e militari milanesi è qui richiamato sinteticamente, come riferimento esemplare di un quadro nazionale più ampio. Il recente respingimento, da parte del Tar Lombardia, dei ricorsi contro l’Accordo di programma per l’attuazione urbanistica del progetto dei sette maggiori scali ferroviari della città, sembra infatti chiudere le questioni di legittimità amministrativa, ma lascia immutata la necessità di riflettere sui contenuti di politica territoriale che accompagnano l’intera vicenda. In sintesi: vi sono peculiari aspetti che attengono al processo politico-decisionale (la compressione delle facoltà deliberative dell’amministrazione a fronte del potere negoziale delle grandi società pubbliche proprietarie dei compendi demaniali; l’esiguità del dibattito cittadino e l’inconsistenza del contributo portato dalla cultura architettonica), ma è soprattutto il debole inquadramento di politica territoriale che segna il progetto degli scali milanesi. Difatti, il Piano di governo del territorio (Pgt) adotta per queste aree cruciali un approccio per singole opportunità di trasformazione, privo di una politica complessiva e di una strategia spaziale alla scala metropolitana. Anche le infrastrutture previste, la cosiddetta Circe line e le reti ambientali, servono solo come collegamenti serventi ed intra-urbani tra le aree. Giuseppe De Finetti definiva un simile rovesciamento di concezioni urbanistiche “invertire il mezzo col fine” (Milano. Costruzione di una città, 1969).
Il caso della Caserma Sani a Bologna: decisioni oligopolistiche e salvaguardia pubblica
L’esperienza milanese trova riscontro nelle ultime vicende bolognesi. Anche qui si può prendere spunto da un recente provvedimento giudiziario: il decreto di sequestro preventivo, emanato dalla magistratura locale, del grande complesso demaniale della Caserma Sani, immobile di proprietà della Cdp, occupato dagli attivisti di uno storico centro sociale cittadino [immagine di copertina]. Senza entrare nei contenuti politici dell’atto, interessa rilevare come questo abbia reso l’area accessibile alla cittadinanza dopo un lungo periodo di abbandono, risvegliando la consapevolezza pubblica sul valore storico-monumentale, urbanistico ed ambientale di questo luogo, ed avviando un più esteso dibattito sugli usi futuri di tutti i compendi pubblici bolognesi prossimi all’alienazione.
Il caso della Caserma Sani, più di altri, consente di fare considerazioni generali sul ciclo attuale delle politiche urbanistiche bolognesi. Si tratta di un’area estesa (più di 100.000 mq di superficie territoriale), nel cuore dello storico quartiere operaio della Bolognina e lungo la direttrice di espansione strategica del cosiddetto Asse nord. Si tratta della parte di città dove si sono concentrate le più intense operazioni urbanistiche della Bologna contemporanea: dalle proposte progettuali di Kenzo Tange, Leonardo Benevolo e Giancarlo De Carlo, alla realizzazione della fiera, della sede della Regione, del tecnopolo, per finire con le trasformazioni urbanistiche frutto dell’ultima ed infelice stagione dei programmi emiliani di riqualificazione urbana (culminati nel traumatico edificio-cavalcavia dell’Unipol). Il PRG del 1989, per riequilibrare i consistenti carichi insediativi previsti tutti attorno, destinava l’area della caserma a parco pubblico. Tale previsione cade con l’attuale fase di pianificazione: il Piano strutturale comunale (PSC, 2008) e la contestuale strategia attuativa di “Rigenerazione dei patrimoni pubblici” (2016), ridefiniscono gli usi e assegnano a questo comparto capacità edificatorie molto consistenti.
Il successivo concorso internazionale per il masterplan – conclusosi nel 2017 con la vittoria dello studio italo-belga Dogma – ha avviato la redazione del piano attuativo (in corso). Il progetto sembra restituire una forma urbana di gran lunga migliore rispetto agli altri programmi urbanistici che hanno interessato questo settore di città; si articolano le relazioni tra spazio pubblico, semi-pubblico e privato, nonché ci si applica a conferire centralità e compattezza alle aree verdi d’uso sociale. Nonostante ciò, il fatto che l’intero insediamento venga ridisegnato applicando uno schema a griglia abbatte drasticamente il rango di emergenza urbana di questo spazio collettivo cittadino e sembra più funzionale a un’attuazione edilizia di tipo frazionato. Di conseguenza, il bilancio in termini di guadagno per la città pubblica risulta grandemente deficitario: la compromissione del potenziale ambientale dell’area e della sua valenza di spazio collettivo alla scala della città trovano un’esigua compensazione dalla realizzazione di poche e residuali attrezzature di quartiere, il cui ottenimento viene poi difeso ricorrendo alle retoriche, che Albert Hirschman definiva reazionario-repressive, della “messa a repentaglio” (Retoriche dell’intransigenza, 1993). La selezione concorsuale e l’eventuale qualità delle soluzioni architettoniche non sono in grado di rimettere in discussione o emendare decisioni oligopolistiche di uso squilibrato del territorio. Soprattutto non possono influire sul fondo della questione: queste proposte si collocano in un generale quadro di amministrazione urbanistica che produce progetti senza politica, privi di una cornice strategica di sviluppo per la città nel suo complesso.
Il ruolo della mobilitazione civica
Le vicende post militari della Piazza d’armi a Milano-Baggio e dei Prati di Caprara a Bologna permettono di ragionare sull’insorgere di condizioni in parte inedite rispetto a quanto visto finora.
Anche qui ritroviamo un ruolo preponderante assunto da una “società veicolo” pubblica (Invimit), incaricata dell’alienazione dell’area. A fronte di questo, l’indubbio valore naturale-ambientale delle aree, frutto di quel processo che botanici e naturalisti definiscono di ricolonizzazione forestale spontanea, ha mobilitato il protagonismo degli abitanti e portato alla formazione di alcuni attivi comitati cittadini, che hanno influito in modo decisivo sugli esiti del processo decisionale. In particolare nel caso milanese, questi fattori hanno avuto alcune rilevanti conseguenze sulle previsioni urbanistiche per la Piazza d’armi: il drastico abbattimento delle esorbitanti capacità edificatorie che il PGT inizialmente assegnava all’area (0,7 di utilizzazione territoriale) e l’adozione di una soluzione progettuale meno invasiva (della quale l’Invimit aveva incaricato lo studio Freyrie e Flores, lo stesso che si occupa del piano attuativo per i Prati di Caprara), ma soprattutto si è avuta una reale negoziazione pubblica sugli usi collettivi e sulla salvaguardia ambientale dell’area, che evidentemente la sola rappresentanza politica locale non aveva la forza di condurre.
Ludovico Quaroni chiudeva un suo famoso scritto affermando che, senza istituzioni competenti e responsabili, la città si riduce a “un vuoto pieno di interessi” (La torre di Babele, 1967). Visto il peso contrattuale esercitato dai decisori delle grandi società statali, di fronte al quale anche importanti municipalità come Bologna e Milano mostrano un’estrema debolezza di proposta politica e di competenza tecnica, la reintegrazione di uno spazio di aperto confronto collettivo potrebbe togliere questo ciclo di politiche urbane dalle gabbie del conto economico e riempire quel vuoto con i contenuti della qualità ambientale e dell’equità sociale.
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bologna , concorsi , Milano , Pianificazione , rigenerazione urbana
Last modified: 18 Maggio 2020