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Patrizia MelloWritten by: Professione e Formazione

Jean Nouvel, atti di pensiero per un maestro di scena

Jean Nouvel, atti di pensiero per un maestro di scena

Una riflessione sull’operato dell’architetto francese in occasione dell’omaggio tributatogli in Cina con la mostra “Jean Nouvel, in my head, in my eye… belonging…”

Fino all’1 marzo 2020

è in corso, presso la Power Station of Art di Shanghai, la mostra “Jean Nouvel, in my head, in my eye… belonging…”. Si tratta del primo omaggio che la Cina rivolge ad uno dei più significativi architetti del nostro tempo. Secondo Nouvel, «La forza dell’architettura è quella di essere unica e appartenere a una storia e una geografia, a una cultura personalizzata da coloro che la governano e che la vivranno o la faranno vivere. Questo senso di appartenenza è il criterio di autenticità». L’appartenenza al luogo è una delle principali caratteristiche che hanno posto all’attenzione internazionale i progetti di Nouvel (classe 1945), impegnato sin dagli esordi nel combattere – sulla scia degli effetti delle contestazioni sessantottine – un certo scarno professionismo che stava imbavagliando il progetto. Non a caso, in quegli anni, è stato allievo di Claude Parent (1923-2016) e Paul Virilio (1932-2018), architetti-intellettuali, fondatori della rivista «Architecture-Principe», dove si discuteva di “spazio obliquo”, pieghe, pendenze… in cerca di una visione meno alienata dello spazio urbano e della sua crescita in altezza («marciare sull’obliquo è ritrovare il proprio corpo, rivisitare le nostre nozioni di equilibrio»). Fino a che fonderà il gruppo Mars ’76 con lo scopo di mettere in discussione i principi della tecnocrazia che regola la costruzione delle città.

La critica all’omologazione trova eco nel rifiuto di un approccio stilistico che, secondo Nouvel, ha sempre rappresentato un handicap perché, per rimanere all’interno di un determinato stile, si finisce per rinunciare a risolvere determinati problemi («Quello che mi interessa è la pertinenza di una risposta ad uno specifico contesto»). Lo stile, dunque, può essere più che altro «il modo in cui un architetto affronta i problemi». E a tale proposito, Nouvel è stato sempre molto chiaro: «L’architettura è trascrizione e fissazione della cultura contemporanea in una forma materiale», in questo riallacciandosi a Mies van der Rohe, uno dei maestri della modernità, quando sosteneva: «L’architettura dipende dal proprio tempo. È la cristallizzazione della sua intima struttura, il lento dispiegamento della sua forma. Questo è il motivo per cui tecnologia e architettura hanno una relazione così stretta» (1950). Tutti aspetti ben visibili nell’operato di Nouvel, dove la tecnologia è il vettore di emozioni e sensazioni inedite, quasi sempre frutto d’invenzioni elaborate appositamente per identificare gli edifici ed ambientarli nel contesto, come se fossero lì da sempre (dall’Istituto del mondo arabo di Parigi al Centro di cultura e congressi di Lucerna).

Allo stesso modo, per Nouvel, la modernità altro non è che «Scegliere, in un dato momento della storia, la direzione giusta e la massima velocità possibile nel senso dell’evoluzione del sapere. La modernità è qualcosa di vivo, mobile, in evoluzione». Fino a dichiarare che la modernità è un atto di «Autenticità storica: ciò che rivela il segno dei valori di un’epoca». Principi che hanno contribuito a tenerlo alla larga dai vari “ismi” (in particolare dai vezzi del “postmodernismo” anni ottanta) e che si ritrovano in molte delle concezioni più singolari, come nel caso della Tour sans fins (Parigi, 1989, non realizzata) e della Fondation Cartier pour l’art contemporain (Parigi, 1995), tra le sei opere selezionate per la mostra di Shanghai (le altre quattro sono: il già ricordato KKL di Lucerna; la Tête Défense, rimasta sulla carta; i Grandi Magazzini Lafayette a Berlino; il grattacielo 53W53, in fase di ultimazione a New York). Tali progetti descrivono in maniera eloquente il metodo progettuale di Nouvel dove “ambizione, invenzione, immaginazione” sono i tasselli per arrivare a quel citato senso di “autenticità” che farebbe di un’architettura un “oggetto singolare”, ossia un oggetto talmente “spiegato” in se stesso che “letteralmente ti assorbe” tanto da non richiedere ulteriori spiegazioni, come emerge nell’intenso dialogo tra Nouvel e Jean Baudrillard (Les objets singuliers. Architecture et philosophie, 2000). «Per me la perfezione in architettura – sosteneva il filosofo francese – è quella che a partire dalle sue dimensioni rimuove ogni traccia di se stessa e dove lo spazio rappresenta il pensiero stesso».

Riprendendo il titolo della mostra cinese, l’architettura è prima di tutto un “atto di pensiero” che costella la mente, e che successivamente l’architetto traduce in nitide “visioni” spesso accompagnate dall’ambizione di «trovare i limiti tra reale e virtuale», di sapere «quanto ci si possa spingere in avanti prima che l’impresa diventi impossibile». Nella Tour sans fins, ad esempio, l’idea è quella di oltrepassare la logica della prospettiva albertiana in una successione di passaggi, fino a che l’edificio scompare nel cielo («ciò che è formidabile oggi non si esprime nelle travature colossali; al contrario, tende all’economia della forma e dell’espressione»). Nella Fondation Cartier, invece, si tende a ricreare una sorta di “fantasma del parco” poiché non è mai chiaro se si sta guardando il cielo o il cielo in trasparenza, se dietro il vetro c’è un albero o se si tratta semplicemente del suo riflesso. E in questo il vetro gioca un ruolo importante («il vetro mi permette di accrescere la complessità plastica di un edificio senza il ricorso a forme complicate; di giocare con la luce come strumento di programmazione dello spazio, permettendo allo spazio di mutare durante il giorno, di sovrapporvi segni…»). In definitiva si tratta di quella che Nouvel definisce «dimensione estetica del miracolo», dove sono le superfici ad acquistare importanza, concepite come vera e propria interfaccia comunicativa. Cosa che non è sfuggita a Virilio quando, in occasione della mostra al Centre Pompidou agli inizi del 2000, ricordava che nell’opera di Nouvel, «la questione della visualizzazione è ovunque e, con lei, quella della rivoluzione dell’informazione che succede alla rivoluzione industriale». Il senso di appartenenza ricordato si collega, quindi, sia ad una sorta di nostalgia per ciò che si è perso, sia al voler imprimere il contesto con nuove presenze, mai arbitrarie ma foriere di promettenti sperimentazioni. Lo stesso Virilio affermava che: «Nouvel non è, come troppo spesso si pretende, un architetto “mediatico”, bensì un mediatore tra lo spazio reale dell’edificazione e il tempo reale della trasmissione delle forme e delle figure della sconfitta urbana».

Nei progetti più recenti (veri e propri racconti dei luoghi dove nascono), complice l’entità delle commesse, Nouvel sembra essere sempre più disponibile a prestare il proprio pensiero perché diventi “materia” viva, contro il rischio di sparizione che incombe su di noi attraverso un’architettura quasi da favola, come nel Louvre Abu Dhabi (2006-17), o nel Museo nazionale del Qatar a Doha (2003-19), dove i piani in pendenza sono un tributo proprio a Parent (insieme neutralizzano ogni genere di verticalità, alla ricerca di microcosmi nuovamente performativi). E il rapporto tra invenzione materica e tecnologica si fa agonistico, tutto giocato come appare tra le ambizioni del committente e quelle dell’architetto conscio di un senso d’ineluttabilità che ci circonda, contro cui combattere con gli strumenti del mestiere. «Possiamo combattere questo senso di inevitabilità che ci appesantisce come il piombo? Superare la realtà? Sfuggire alla nostra condizione? Pensare, immaginare, riempire le nostre menti con nuove immagini, dare a queste immagini mentali un po’ di forma, renderle reali. Farle spostare dalla mia testa ai miei occhi…».

Maestro di scena in molte delle sue architetture, modulate dalla luce che ne acuisce percezione e sensualità, per la mostra di Shanghai Nouvel è sceso in campo come regista e ha realizzato un film di tre ore e mezzo, entrando nel vivo degli edifici progettati, utilizzando le immagini per raccontare quali sensazioni può sprigionare un’architettura, lasciandoci col fiato sospeso sul finale che, senza dubbio, non deluderà.

Autore

  • Patrizia Mello

    Si interessa di teoria, storia e critica del progetto contemporaneo, argomenti su cui svolge attività didattica e ricerca, pubblicando numerosi articoli e saggi, e organizzando convegni. Tra le sue pubblicazioni: “Progetti in movimento. Philippe Starck (1997); “L’ospedale ridefinito. Soluzioni e ipotesi a confronto” (2000); “Metamorfosi dello spazio. Annotazioni sul divenire metropolitano” (2002); “Ito digitale. Nuovi media, nuovo reale” (2008); “Design Contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture” (2008); “Neoavanguardie e controcultura a Firenze. Il movimento Radical e i protagonisti di un cambiamento storico internazionale” (2017); “Firenze e le avanguardie Radicali” (2017); "Twentieth-Century Architecture and Modernity: Our Past, Our Present" (2022)

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Last modified: 8 Gennaio 2020