Visita al museo cinese di Qingdeng, progettato da Daniel Saracino per ospitare una vasta collezione di antichi manufatti in pietra salvati dalla distruzione
WENZHOU (CINA). È noto che in Cina l’impetuoso sviluppo economico degli ultimi due decenni, basato in gran parte sull’edilizia, ha portato ad una trasformazione radicale di paesaggi naturali e di molti centri urbani, con la perdita di significative testimonianze dei sistemi insediativi storici e delle tipologie edilizie tradizionali. Tuttavia anche nel più grande Paese d’Oriente si sta sviluppando una maggiore consapevolezza intorno ai temi della tutela dell’ambiente e della conservazione dei documenti del passato. Nella città di Wenzhou, la nascita di un museo che recupera e conserva antichi manufatti in pietra può essere vista come un segno importante in questa direzione.
Zhang Jincheng è un giovane imprenditore che è stato uno sportivo di rilevanza internazionale e ha deciso di dedicare gran parte della sua vita alla raccolta e collezione di antiche pietre. Con la collaborazione della Municipalità, che gli ha messo a disposizione un terreno sulla sponda del fiume, ha realizzato un museo dove accogliere la sua collezione e aprirla al pubblico. Il museo Qingdeng (dal soprannome del committente, che vuol dire “lanterna che illumina”, simbolo di luce e di purezza) è uno spazio di 6.000 mq, inaugurato nel settembre scorso, a conclusione di lavori iniziati nel 2017, per un importo di 45 milioni di yuan, come riportato dalla rivista di cultura della città, che lo descrive come un museo della memoria.
Il museo
Progettato dallo studio Neispace, diretto da Daniel Saracino, è articolato in due volumi principali a gradoni con coperture verdi, affacciati con grandi vetrate sul paesaggio naturale del fiume e collegati da una piccola corte interna caratterizzata da acqua e verde. Gli spazi espositivi sono su due livelli e il percorso di visita si snoda in modo fluente e naturale fino al book store e al caffè affacciati sul fiume. Un ingresso indipendente, a sud, permettere di accedere alla residenza e studio privato del committente, anch’esso affacciato con una terrazza verso il fiume. Sull’architrave campeggia l’iscrizione Bairen Jiafeng che esalta la tolleranza come base dell’etica familiare. La struttura del complesso, in calcestruzzo armato, è lasciata a vista all’interno e tamponata all’esterno con più di 80.000 pietre provenienti da muri antichi, con incastonati pezzi in pietra che sono già un’anticipazione della collezione di Jincheng: una testa di cavallo, macine, bassorilievi, antichi pesi per il commercio. Il muro, alto più di 10 metri, è stato messo in opera da maestranze locali, anziani artigiani, ultimi conoscitori di antichi magisteri costruttivi che si stanno perdendo.
Il visitatore è accolto da un portale ottocentesco in pietra che proviene da una banca privata della famiglia Taoyongtai di Wenzhou, un cimelio disperso nelle campagne da decenni. Al lato è apposta un’insegna con una scritta emblematica: Visit the museum see the city (visitare il museo è visitare la città). All’interno, in uno spazio rarefatto, illuminato dalla luce naturale, sono collocate oltre 500 sculture in pietra, nonché suppellettili, arredi, elementi costruttivi provenienti da 689 residenze situate in circa 200 antichi villaggi, ora distrutti, e raccolti in più di 13 anni di ricerche.
Parti di pagode buddiste, decorate con apsara volanti delle epoche Tang e Cinque Dinastie, pagode Asoka, iscrizioni in pietra delle epoche Ming e Qing, stipiti ed architravi di edifici, lanterne di templi, sculture di santi, cavalli, leoni, draghi apotropaici e ancora vasche, tegole, pavimentazioni antiche, costituiscono l’eclettica raccolta del museo, pietre scolpite e lavorate che possono essere osservate e toccate sia all’interno sia all’esterno del museo, in uno spazio che dialoga con la vegetazione e l’acqua del fiume, frutto della commistione di culture tra Occidente e Oriente.
L’intenso dialogo tra il committente e il progettista, fatto di complicità ma anche divergenze, si coglie nel contrasto tra la purezza dei volumi e la posa artigianale della pietra, ma la sintesi è riuscita. Non mancano echi e influenze lontane: da Mies Van der Rohe a Le Corbusier, da Carlo Scarpa a Tadao Ando, infatti essenzialità razionalista e filosofia zen, cura del dettaglio, capacità di dialogo tra materiali lasciati a vista (cemento, pietra, legno) ed elementi della natura (acqua e verde), sono le coordinate principali per la lettura del museo. Un oggetto che stupisce per freschezza e sincerità, ma al tempo stesso per impegno sul tema non facile della conservazione e della dialettica tra oriente e occidente.
Questo museo fa pensare che si possano ancora avviare programmi di conservazione dell’immenso patrimonio storico di un Paese dalla cultura millenaria. E’ una denuncia della barbarie della distruzione dei monumenti: non importa se ciò avviene in nome della religione, del profitto o di un preteso “progresso”.
Chi è il progettista
Daniel Saracino (Roma 1981) si è laureato in architettura all’Università La Sapienza di Roma, dove ha conseguito un master. Ha vissuto in India e ha seguito corsi di specializzazione presso la Carnegie Mellon University a Pittsburg. La sua passione per la cultura cinese, coltivata già nel periodo universitario, lo ha portato nel 2008 a Shanghai dove ha dato vita a Neispace, uno studio di progettazione impegnato su temi che spaziano dalla pianificazione urbana al design di interni per la residenza, il commercio e l’impresa. La sua padronanza della lingua e il suo fascino per la cultura orientale, uniti alla formazione nell’ambito del razionalismo delle avanguardie occidentali, lo portano a elaborare progetti di raffinata essenzialità.
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cina , conservazione , musei
Last modified: 23 Dicembre 2019