Bilancio della prima edizione del festival dell’architettura, organizzato dall’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia
ROMA. «SPAM. Settimana del progetto di architettura nel mondo», il primo festival dell’architettura di Roma, svoltosi dal 10 al 18 ottobre presso la Casa dell’Architettura all’Acquario Romano, ha concentrato il dibattito attorno ad alcune tematiche, una per ogni giornata: riuso e trasformazione, nature urbane – il rapporto fra costruito e ambiente naturale – spiritualità, cityscapes, abitare la città, al limite del design, architettura visionaria, dreamcity. A rispondere all’invito dell’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia, organizzatori della kermesse, personalità di rilievo del mondo del progetto sia nazionale che internazionale come Mario Bellini, Alfonso Femia, Massimiliano Fuksas, Daniel Libeskind, Mad Architects, Manuel Aires Mateus, MVRDV, Gianluca Peluffo, si sono alternati agli studi romani Alvisi Kirimoto, Insula, King Roselli, Labics.
Coraggio
Sarebbe questa la parola, se dovessimo riassumere in un motto l’intera manifestazione curata da Roberto Grio, consigliere dell’Ordine capitolino. E non solo perché più volte usata nella otto giorni romana, che proprio nel coraggio individua l’elemento necessario per far riguadagnare quota alla capitale. Ma anche perché è proprio grazie alla forza di superare i propri limiti, d’investire energie e risorse seppur limitate, che anche Roma adesso partecipa al dibattito sull’architettura da protagonista. Una parola che si traduce in esortazione che a più riprese proviene dai progettisti, quando si parla della situazione specifica della capitale così come dell’attività architettonica tout court. Un invito che parte dalla dimensione emotiva che precede l’atto del progettare per arrivare a esprimere le proprie forze senza timori, inibizioni e limiti preconcetti.
Come afferma Alfonso Femia: «Il progetto non è un servizio ma un processo, bisogna assumersene la responsabilità così come bisogna coltivare l’ambizione di diventare grandi, altrimenti niente succede. Siamo diventati indifferenti, ai luoghi, ai paesaggi, incapaci di riconoscerci in un palazzo, in una casa, nell’architettura in cui viviamo, per questo è importante che ci sia una dichiarazione di sentimento. Proprio il sentimento è il primo motore».
Forse è proprio dal coraggio che tutto comincia, quando s’immaginano risorse al di là dei limiti che appaiono insuperabili e si riesce a guardare alla realtà con lucido ottimismo. Questo il messaggio che il festival lancia, sposando l’idea di un’architettura che interviene nella vita di tutti i giorni e ne definisce gli spazi, che agisce sulla doppia scala delle azioni quotidiane e delle azioni importanti, che crea le possibilità dell’individuo di vivere al meglio la propria esistenza, per affermarsi sul contesto anziché restarne schiacciato.
Visione
Anche Guendalina Salimei, fondatrice di T-Studio, parla di coraggio come condizione diventata essenziale per ridefinire il futuro di Roma: «Forse è arrivato il momento in cui ci dobbiamo ribellare, avere il coraggio di proporre delle idee per la città, perché magari i politici non le hanno o non le vogliono realizzare». Salimei sottolinea attraverso un’analisi storica e del territorio che Roma ha molte risorse: il mare, un fiume e vaste aree verdi che la potrebbero portare ad avere delle infrastrutture ecologiche come piste ciclabili lungo un Tevere reso navigabile, sottolineando poi come sia necessario ripensare le periferie con l’obiettivo di portare i turisti fuori dal centro, per non pesare sul centro storico e sull’area archeologica, entrambi costantemente congestionati.
Avere una visione programmatica del futuro è stato necessario per realizzare i waterfront di Copenaghen, Londra, Shanghai – come non manca di sottolineare Anna Maria Indrio -; progetti che hanno ridisegnato il paesaggio urbano e che potrebbero essere esempi applicabili anche nel caso di Roma. Avere una visione del futuro per Roma significa proprio disegnarne i possibili sviluppi, prefigurare le soluzioni a partire da un’analisi attenta della realtà e dalla condivisione degli obiettivi, della cui responsabilità è investita l’attività progettuale. «A differenza dell’utopia, che è solamente un foglio bianco – afferma Gianluca Peluffo –, la visione parte dai tracciati su di esso. A partire da questo, poi, una visione personale diventa importante quando diventa, o ha la possibilità di diventare, collettiva».
I grandi assenti
La manifestazione procede senza intoppi, anche se con qualche sbavatura, fra interventi di tutto interesse. Eppure qualcosa manca. Si sente la mancanza di un interlocutore politico, più volte inevitabilmente tirato in ballo quando si parla di ridisegnare il futuro di Roma, di avere un supervisore sull’attività edilizia privata. Un’assenza tanto più sonora quanto più ci si riferisce al caso virtuoso della Francia, spesso citato durante la manifestazione, che fa da garante della qualità del costruito, che controlla affinché la partecipazione ai concorsi sia la più ampia possibile, che supervisiona il progetto, le sue caratteristiche e il suo impatto sull’area interessata, che interviene anche nel caso di committenti privati.
Non si può fare a meno di notare l’assenza, da tre decenni a questa parte, di una proposta e di una gestione della cosa pubblica in tema di architettura; e non può non suscitare rabbia e frustrazione nei progettisti intervenuti quando si parla d’invertire la traiettoria discendente della capitale. Lo fanno presente gli architetti sul palco, come Francesco Isidori, fondatore di Labics insieme a Maria Claudia Clemente, che sottolinea come al Piano regolatore del 2008 non sia seguita alcuna azione. Un masterplan all’avanguardia al momento dell’approvazione, che identificava 18 aree di decentralizzazione, cui poi è mancata l’attuazione, visto che i singoli snodi urbani non sono stati programmati. A volte nominato timidamente, altre volte bersaglio di accese critiche, l’amministratore della cosa pubblica è evocato come un personaggio mitologico dai contorni incerti, ma nessuno è presente a rappresentare la classe politica dirigente attuale o passata. Una latitanza significativa di uno scollamento fra il mondo del progetto e quello della gestione pubblica, della governance della capitale, sempre più profondo.
Dispiace inoltre constatare che ancora una volta le presenze femminili sul palco e in platea sono largamente inferiori rispetto alle maschili. Una cosa questa che, anche se ha smesso da tempo di generare sorpresa non manca di essere, comunque, motivo di riflessione critica. Si tratta di una forzatura ingiustificabile, specialmente in un ambito professionale, com’è quello dell’architettura, costituito per la maggior parte da donne.
La platea
La presenza del pubblico è stata sufficientemente numerosa per essere un’edizione d’esordio; ha visto sfilare scolaresche e classi universitarie ai piani superiori dell’Acquario Romano, che ha ospitato le tre mostre inerenti i disegni di Alberto Sartoris, gli scritti e gli schizzi di Francesco Berarducci, e la selezione dei progetti di exhibit design scelti dalla rivista «Platform».
Tante le iniziative volte a rendere il dibattito, l’attenzione sul progetto alla portata di tutti invece che destinata ai soli addetti ai lavori, come la rassegna cinematografica serale, che ha riletto spezzoni di grandi classici del cinema ambientati a Roma attraverso le sue architetture o, ancora, i workshop per ragazzi e bambini a cura dello Studio Costa.
Iniziative che però non sono sufficienti a richiamare una grande presenza di pubblico. SPAM, l’ambizioso acronimo del festival, aveva creato l’aspettativa di una viralità di contenuti sul digitale e di una diffusione d’iniziative nella città che, in realtà, non ci sono state, dal momento che l’evento ha avuto luogo nella sola Casa dell’Architettura. Ma ci sarà tempo per far crescere la proposta di un festival che alla sua edizione d’esordio è già riuscito nel difficile compito di restituire a Roma il suo posto nel dibattito sul progetto.
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Last modified: 23 Ottobre 2019