Riceviamo e pubblichiamo una riflessione di due studenti del Politecnico di Milano sulla situazione attuale dell’architettura in rapporto alla sua dimensione sociale e culturale
Verrebbe quasi da iniziare con un bel “Caro Rogers”, andare a capo, e rivolgersi direttamente a lui. Ma il problema si sa, è sempre quello di capirsi con chi parla una lingua diversa. Andrebbe scritto subito, all’ingresso delle facoltà d’Architettura: “Gli architetti sono Servi dell’Architettura”. Una volta varcata quella soglia sono sottomessi ad un obbligo etico e morale più grande di loro. Ancor prima dei regolamenti edilizi e dei programmi funzionali, il loro rispetto deve andare all’Architettura. Purtroppo, oggi non sembra così. Il problema, forse, un po’ è il disinteresse degli studenti alla disciplina e al dibattito che non si respira in Università, un po’ è la sensazione di una discrepanza tra teoria e prassi, tra didattica e ciò che sta “là fuori”. Si rispolvera «Casabella Continuità» n. 275 e si trova Ernesto Nathan Rogers scrivere che «l’insegnamento nelle Scuole di Architettura è carente delle basi coscienti sui contenuti di carattere sociale, morale, umano». Quindi, noi il monito lo rilanciamo.
Comunque, non è un impoverimento dell’Architettura. Semmai lo è dei suoi autori, e comunque sempre culturale. L’Età della Tecnica ha messo una lapide sopra ogni sapere umanistico. L’architetto, uno degli ultimi umanisti, oggi si è ridotto a servo del sapere tecnico, un tecnologo. L’uomo della macchina, cavillo di Le Corbusier, ha raggiunto il suo stadio finale, o poco ci manca: è diventato macchina. Ma sappiamo che Le Corbusier parlava pur di Spirito. Si ricorda come descriveva Venezia: una città «senza l’oppressione della civiltà delle macchine». Anche la Filosofia, atteggiamento che poggia sul pensiero per cercare il senso delle cose, oggi è disvestita dal suo ruolo. Ora, è pur lecito credere che una società senza pensiero abbia vita breve.
Questo attaccamento alla techné è il morbo della cultura architettonica ma, peggio cosa, dell’uomo nella sua a(e)ssenza. La tecnica è diventata tecnologia. Dalla sapienza costruttiva all’esibizionismo e al virtuosismo retrogradi. Architettura come mera esaltazione tecnica. Appunto, si alzano grattacieli. Forme senza Tempo e senza Memoria. Per dirla alla Paul Valéry, architetture che non cantano, ma anzi, nemmeno osano timidamente dire qualcosa. Così, viene da chiedersi se davvero questa sia la strada. Mah. Le risposte difficilmente arriveranno senza l’atteggiamento menzionato poc’anzi. Se non si mette alla prova il senso comune delle cose.
La conseguenza dell’epoca della techné e dell’eclissi dei saperi umanistici è la mancanza di un’idea. Un’idea delle cose, un’idea di mondo. Ad esempio, oggi manca un’idea di città a cui corrisponda un’idea di architettura. Si assiste ad un’omologazione – che già denunciava Pier Paolo Pasolini – di tipo culturale e sociale, e pertanto architettonica. Questa forza propulsiva del progresso ci spinge verso un’idea di città-uguale ovunque, e ne giustifica così il fatto di essere bella e buona, ma invece non fa altro che creare dei “non luoghi”.
Serve oggi riprendere l’identità antropologica dei luoghi per poter rintracciare una vita e un’origine in essi. Questo è il senso dell’Architettura. Solo così si può favorire il riscatto civile degli insediamenti. L’omologazione, al contrario, seppellisce la continuità storica. I grattacieli sono oggi il simbolo dell’omologazione e della perdita di coscienza architettonica. Il progresso si riflette in un regresso morale e umano, ideativo e progettuale.
Indottrinato da tale struttura sociale l’Uomo perde la sua coscienza nel mondo. Il senso delle cose. Diventa servo, ma non in senso nobile. Uomo in quanto fattore produttivo in funzione di un apparato, Uomo-macchina. Perciò, oggi più che mai, serve una filosofia dell’Architettura. Serve coltivare un animo coscienzioso e riverente verso l’Architettura, unico mezzo che l’Uomo possiede per muovere lo Spirito delle città e lo Spirito degli uomini. Dobbiamo liberarci dall’«oppressione della civiltà delle macchine», dalla tecnologia omologata, e riprenderci la nostra dimensione spirituale.
Diego Morabito, Gabriele Lenti
Scuola di Architettura, Politecnico di Milano
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Last modified: 17 Ottobre 2019