A dieci anni dalla scomparsa, la lezione dell’architetto norvegese sembra essere inascoltata
Nato nel 1924 a Kongsberg, Sverre Fehn (Pritzker Prize 1997) si laurea all’Università di Oslo nel 1949 sotto la guida di Knut Knutsen e Arne Korsmo. Il talento di Fehn si esprime subito con due caratteristiche che resteranno la cifra di tutta la sua produzione negli anni a venire: non appartenere ad alcuna corrente e, dote non comune, saper leggere il genius loci, particolarità che lo rendono responsabile solo nei confronti del proprio cliente e dell’ambiente nel quale realizza le proprie opere, valorizzando con rara sensibilità le caratteristiche fisiche e la capacità evocativa dei materiali utilizzati. Fra tutti la luce, quella nordica, che pervade i suoi edifici di una diafana magia, una luce dorata, impalpabile, che egli modella come creta con estremo equilibrio conducendo l’esterno nei suoi interni. Il lavoro di Fehn è eccellente per sensibilità e poetica ma anche per il controllo della composizione, di tipo geometrico e su matrice modulare, generatrice di uno spazio dinamico, mutevole – contrappunto al disciplinato schema adottato –, uno spazio percepibile solo muovendosi al suo interno, una promenade architecturale che si arricchisce di un insieme semplice e articolato di luoghi definiti, appunto, dalla e nella luce.
Due sono gli strumenti che impiega per il controllo del progetto: la pianta e la sezione. Con la prima controlla forma, composizione e distribuzione e dà ordine al progetto; con la sezione egli dimostra il suo talento nel plasmare lo spazio, e in essa la struttura ricopre necessariamente anche una funzione lirica, diventa non solo soluzione tecnologica a problemi tecnico-costruttivi, ma anche il reagente della composizione nella definizione volumetrica dell’edificio.
A dieci anni dalla scomparsa di Fehn, è possibile individuarne un’eredità? Certamente il tempo trascorso è troppo breve. Con qualche azzardo, si può sostenere che non esista alcuna scuola di pensiero ispirata ai suoi insegnamenti, forse anche per la propensione che dimostrava nel lavorare (solo, con l’aiuto di uno o due studenti) all’insegna dell’understatement e di un rigore in parte riconducibile alla cultura luterana del suo Paese.
Se guardiamo con attenzione le realizzazioni pubblicate nell’ultimo decennio non troviamo tracce evidenti del suo linguaggio; assistiamo invece – salvo alcuni casi – ad un’omologazione stilistica che ha coinvolto l’intero ambito architettonico internazionale, anche quello scandinavo, da sempre a cavallo fra modernismo critico, interpretazione vernacolare dell’abitare (soprattutto privato) ed un organicismo di stampo aaltiano. Nell’insieme, le nuove generazioni di architetti scandinavi sembrano seguire l’onda tendenzialmente omologante dei colleghi del resto d’Europa, influenzati più dai modelli diffusi attraverso le varie piattaforme online e dall’editoria di settore che dai riferimenti “colti”, relegati sempre più a ridotte citazioni di dettaglio piuttosto che a un linguaggio espressivo. I vari “-ismi” dell’ultimo decennio sono rivolti in prevalenza a correnti impersonali e non agli insegnamenti di singoli maestri, al punto che i progetti sembrano perdere i connotati che distinguevano le singole figure del Novecento. Non si sottrae a questa forma di depauperamento nemmeno il pensiero di Fehn, forse anche per la forte connotazione locale dei suoi progetti, realizzati nella quasi totalità in Norvegia in contesti “bucolici” difficilmente riproducibili altrove.
I vari Snøhetta, BIG, Tham & Videgård, Wingårdh, Avanto (alcuni tra i più celebrati rappresentati dell’architettura scandinava contemporanea) si esprimono con linguaggi comuni a una forma di apolidia che ne consente una diffusione internazionale, ma “mortifica” quella corrispondenza fra forma, soluzione e interpretazione della specificità locale a cui mirava Fehn. Questa mutazione è il risultato di una sorta di omologazione della cultura architettonica, una globalizzazione di pensiero che – come avviene in altri ambiti – anche in questo caso non riesce a sottrarsi alle richieste della produzione contemporanea. Ciò non significa necessariamente una riduzione nella qualità del progetto (ci sono ancora oggi esempi di grande talento); ne determina però un orientamento comune, una corrente generalizzata a cui non si sottrae più alcuna cultura, nemmeno quelle “lontane” dei “paesi delle lunghe ombre”.
Forse più che indagare una prematura eredità di Fehn, si potrebbe evocarne una sorta di ammonimento: la ricerca della “modesta semplicità” con cui il Maestro norvegese ha condotto il suo lavoro; un silenzio che non deve necessariamente appartenere alla cultura intimistica nordica, ma potrebbe aiutare a orientarsi nelle opportunità professionali mantenendo salda la barra della nave (simbolo tanto caro a Fehn) rispetto ai principi costruttivi per lui dominanti. Quei principi che ne hanno fatto un grande maestro del “dialogo” con il luogo.
Foto di copertina: Sverre Fehn al tavolo del suo studio, 1954 ca. (©Teigens Fotoatelier, Norsk Teknisk Museum)
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Last modified: 5 Settembre 2019