Intorno all’idea di un museo del fascismo a Predappio: la difficile relazione con le tracce del ventennio, con uno sguardo alla Germania
«Chi percorre oggi la Romagna, e specialmente il forlivese, rimane colpito da certi giganteschi scheletri, da smisurate carcasse, in una parola da un ciclopico ossame che biancheggia qua e là, ai piedi o in cima a un colle, in riva a un torrente, dietro a una vigna, in un crocicchio cittadino. Sono gli scheletri della dittatura, l’ossame dell’autarchia: stabilimenti industriali, magazzini, palazzi comunali, case del fascio, scuole e istituti, tribunali, banche, ville e stazioni – costruiti o ampliati con una magnificenza sproporzionata all’uso e ai bisogni, situati in luoghi fuori mano o disadatti al traffico, creati per un atto d’imperio o per cortigianeria, antieconomici e pacchiani. Adesso tutti questi edifici, colpiti dalle bombe e dalle granate, spogliati dei mobili o dei macchinari con una furia certo maggiore che altrove, giacciono abbandonati oppure sono occupati dai sinistrati». Nel 1949 Giorgio Vecchietti, figura di spicco del giornalismo della nuova Italia repubblicana – ma già giovane intellettuale durante il Ventennio, quando era condirettore della rivista “Primato” fondata da Bottai – così descrive sulle pagine de «La Stampa» il paesaggio lasciato dal regime nella periferia dell’impero. Non è solo Roma a dover fare i conti con il passato fascista e le sue ingombranti tracce: ne è disseminato tutto il corpo della penisola, e anche oltre, letteralmente Oltremare. Nel dopoguerra si aprì una stagione di riusi, tra continuità e trasformazioni. In pochissimi casi si scelse la demolizione, anche per la necessità di ricoverare chi aveva perduto una casa e di ripristinare le funzionalità necessarie alla ricostruzione del Paese.
In Germania, invece
Quello che era accaduto – la qualità stessa della violenza agita dal nazismo – rese necessario l’abbattimento dei simboli, intesi non solo come aquile e svastiche ma come centri del potere. Il Braunes Haus, quartier generale nazionale del partito nazista a Monaco, la Neue Reichskanzlei e il Führerbunker nei giardini ministeriali a Berlino furono danneggiati dai bombardamenti, demoliti immediatamente dopo la guerra, i loro resti rimossi: nulla doveva rimanere ai posteri. Nessuna traccia – nessuna reliquia – a partire dalla quale si potesse riattivare un credo, un culto. Per questa ragione il Führerbunker, luogo della morte di Hitler, venne fatto saltare e sigillato sottoterra. Sopra, per tutti i decenni di esistenza del muro di Berlino, si estendeva una zona vuota, vicinissima alla cosiddetta Todesstreifen, la “striscia della morte” dove persero la vita molti di coloro che cercavano di scappare dall’est. Dopo il 1989, mentre il tessuto urbano di Berlino s’infittiva, sopra al bunker è rimasto un semplice terreno battuto in uso come parcheggio, su cui nel 2006 è stato posto un cartello che segnala cosa c’è sotto. A Monaco, al posto del Braunes Haus è stato recentemente costruito il NS-Dokumentationszentrum (centro di documentazione sul nazionalsocialismo) inaugurato nel 2015: davanti all’accesso sono state lasciate alcune macerie dell’edificio preesistente, coperte di erbacce. In realtà, anche in Germania sono rimasti dei relitti del nazismo, ma a partire dagli anni Novanta e Duemila sono stati, in molti casi, interpretati attraverso esposizioni storiche al loro interno (per es. la Kongresshalle nell’area del Parteitag a Norimberga).
Predappio dopo il duce
In Italia, il corpo del duce per più di dieci anni è rimasto nascosto: preservato, ma occultato alla vista. Nel 1957 l’allora presidente del consiglio, Adone Zoli, acconsentì alle richieste della vedova per dargli sepoltura nella tomba di famiglia, a Predappio (Forlì-Cesana). Ci si aspettava un’adunata di fascisti ma non avvenne (ancora): le immagini di cronaca di quel giorno si soffermano soprattutto sulle espressioni di donna Rachele ed Edda Ciano, moglie e figlia di Mussolini, figure complesse, tragiche, fedeli e tradite dall’uomo che stavano seppellendo. A concedere quella cerimonia privata era stato Zoli, esponente della DC, antifascista, partigiano, predappiese. Quel gesto di misericordia e dignità (dare sepoltura al corpo del nemico sconfitto) non aveva tuttavia fatto i conti con un passato che non voleva passare, con le permanenze del fascismo, ma soprattutto con la crescita del neofascismo che si evidenzierà nel decennio successivo, per acuirsi dopo il 1969, dopo Piazza Fontana.
I luoghi della discordia
Attorno all’«ossame» del regime, rimasto per decenni inerte, abbandonato, saccheggiato, segno di vergogna, si è quindi acceso lo scontro. Il suo ingombro è divenuto peso. Un pesante carico storico non elaborato, rimasto fino a oggi a gravare le spalle delle statue e le pietre di monumenti e palazzi. Benché non equamente distribuito, il peso del patrimonio architettonico del regime si addossa su tutto il paese, divenendo ineludibile per le città di fondazione, per quelle trasformate radicalmente o in cui sono presenti opere e monumenti cruciali per l’autorappresentazione del regime. Il fascismo conferì all’architettura il compito di dare forma all’immaginario: nei primi anni, interpretando la rivoluzione moderna in cui si voleva coinvolgere l’intera nazione; dal 1936, dando corpo all’impero, con un nuovo stile consacrato al culto della romanità.
Dopo il 1945 questo «ciclopico ossame» è rimasto sul terreno, percepito da alcuni come reliquia, da altri come relitto, da altri ancora come elemento ostile e provocatorio. Si è pensato di poterlo semplicemente riutilizzare, facendo prevalere la funzione sul significato, dimenticando tuttavia le forme, che continuavano a rimandare all’intenzione – e all’ideologia – sottesa al progetto.
A livello pubblico, per molto tempo queste forme sono state percepite come «brutte», sostituendo il giudizio estetico con quello etico. Per questo motivo, tra gli anni Settanta e gli Ottanta è iniziata una profonda e complicata – non scevra da tensioni – operazione culturale di valutazione di questo patrimonio – a difficult heritage – lasciato dal regime, cercando di scindere l’analisi formale dal giudizio morale. Storici e critici dell’architettura hanno messo in luce la complessità di rapporti tra architetti, forme, correnti e regime, precisandone via via l’ambiguità. Inizialmente il «principio morale» è stato utilizzato anche nella valutazione progettuale: a scelte stilistiche antiretoriche, razionaliste e moderne veniva fatta corrispondere a posteriori una scelta politica di opposizione al fascismo. Tuttavia, se la razionalista Casa del fascio di Como e il retorico e littorio Monumento alla Vittoria di Bolzano sono estremamente distanti sul piano formale, non si può dire che Terragni aderisse al regime meno di Piacentini, anzi.
Per un museo del fascismo
Nel 2017, nel clima di polemiche attorno al progetto per il museo sul fascismo da realizzare nell’ex Casa del fascio di Predappio [nella foto di copertina], Ruth Ben Ghiat – docente di History and Italian Studies alla New York University – sollevò domande sulla percezione che gli italiani hanno di questo patrimonio architettonico diffuso, ingombrante e pesante: si generò un’ulteriore polemica, accusandola di non riconoscerne la qualità artistica o addirittura di auspicarne la demolizione. Ancora una volta è sembrato di assistere a un’impossibile conciliazione tra le istanze di riconoscimento del valore formale di queste architetture e quelle di una loro necessaria collocazione storica all’interno delle politiche – e le violenze – del regime. Sarebbe invece cruciale riconoscere la coesistenza tra qualità estetica e sostanza ideologica – tra bellezza e violenza – e analizzarne il difficile, disturbante, portato culturale.
Intepretare l’iconografia
All’interno dell’ex Collegio aeronautico «Bruno Mussolini» di Forlì, progettato da Cesare Valle (oggi una scuola media) si sviluppa un esteso mosaico dedicato alla storia del volo, su disegno del pittore Angelo Canevari
: tessere in marmo bianco e nero ricostruiscono con un tratto grafico elegante e sintetico il percorso che va dal mito di Icaro alle macchine volanti di Leonardo, dagli aerostati ai fratelli Wright fino agli apparecchi in dotazione all’aviazione italiana, alla dichiarazione di guerra del giugno 1940, al numero di bombe sganciate sulla Grecia. L’unico elemento a colori sono tre sorci verdi, quelli che si trovavano sulle carlinghe dei trimotori della 205º Squadriglia da bombardamento della Regia aeronautica che colpì Barcellona e la Catalogna nel 1937. Di fronte a questa opera architettonica e artistica di elevata qualità, non ci si può limitare a descrivere lo stile, la tecnica, i materiali ecc. ma è necessario, anzi, fondamentale, raccontare il contesto storico, l’intenzione sottesa al progetto, mostrare come il contraltare di quella modernità e qualità fu il sopruso, il razzismo, la violenza.
Bolzano: due esempi di risignificazione
Due recenti interventi effettuati sul patrimonio architettonico e artistico lasciato dal fascismo a Bolzano mostrano come sia possibile risemantizzare queste tracce. Nel 2014 all’interno del Monumento alla Vittoria, da diversi decenni fulcro di tensioni tra la popolazione di lingua italiana e quella di lingua tedesca, è stato inaugurato il percorso espositivo «BZ ’18-’45: un monumento, una città, due dittature» che ne ripercorre le vicende storiche, storico-artistiche e storico-architettoniche. Inoltre, la collocazione di un anello con una scritta luminosa attorno a una delle sue colonne «littorie» in forma di fascio ha spezzato l’integrità originaria del monumento – relitto/reliquia del fascismo, indicando a prima vista che non è più lo stesso di prima.
Nel novembre 2017 sopra al fregio del Trionfo del Fascismo sull’ex Casa littoria, ora Palazzo degli Uffici finanziari, è stata posta una scritta luminosa riproducente un’affermazione di Hannah Arendt, «nessuno ha il diritto di obbedire», in italiano, tedesco e ladino: l’intervento di due artisti, Arnold Holzknecht e Michele Bernardi, è risultato vincitore di un concorso volto a trasformare il fregio con il duce a cavallo – iniziato nel 1939 e completato addirittura nel 1957 – in un «luogo di memoria», per rendere consapevoli i cittadini del suo significato (e peso) storico, dal fascismo a oggi, innescando un processo di elaborazione. I due interventi sono parte di un più ampio progetto, «BZ’ Luce sulle dittature»: la risignificazione è avvenuta trasformando questi monumenti da soggetti di un perpetuo presente a oggetti storici.
Sarebbe auspicabile che la via intrapresa a Bolzano venisse adottata anche in altri casi, proponendo una storicizzazione e una risemantizzazione delle tracce del regime. Riuscendo anche ad andare oltre il discrimine del 1945, per raccontarne, analizzarne e interpretarne la storia successiva, quella per cui questi precipitati di vicende ormai lontane quasi un secolo continuano a essere percepiti come vivi, divisivi, brucianti.
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architettura fascista , memoria
Last modified: 24 Luglio 2019