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Written by: Professione e Formazione

César Pelli (1926-2019)

César Pelli (1926-2019)

Riflessioni sul successo e sull’eredità di un protagonista – tra i meno arroganti e appariscenti – della «globalizzazione senza Maestri»

 

La scomparsa di una serie di noti protagonisti dell’architettura verificatasi ultimamente, cui si aggiunge quella recentissima di César Pelli, sposta e tramanda il problema della responsabilità progettuale – con tutta l’eredità che comporta – alla generazione successiva. La conclusione di un periodo fortemente connotato come quello che alcuni di questi personaggi (Kevin Roche, Ieoh Ming Pei) hanno rappresentato – dagli anni ’70 e ancor prima fino ad oggi – dovrebbe aiutare a sviluppare alcune riflessioni sullo status della progettazione in un momento di critica latitante e di Università sbiadite; senza peraltro dimenticare la qualità della buona architettura “sommersa”, spesso sepolta e dimenticata da media fortemente indirizzati alla spettacolarizzazione del prodotto di firma. Si tratta di un tema difficile, raramente sollevato nel silenzio commisurato all’attuale difficoltà storica ed anche al conformismo dell’omologazione formale; dove la discrepanza fra base teorica o ideologica – inesistente – e produzione effettiva è eclatante. A scapito di una qualità che il prodotto elaborato da questi architetti comunque forniva.

La “globalizzazione senza Maestri” ha così sconfinato dall’Anything goes di qualche anno fa, al tormento di uno strutturalismo vetrato senza confini. Dove ritroviamo il Gotha della produzione internazionale cui pochi, compreso lo stesso Pelli – il meno appariscente e arrogante sulla scena dello (termine indicibile) star system – sembrano sfuggire. Certo, l’intero procedimento progettuale è altra cosa rispetto agli anni passati, come lo sono la manodopera o i materiali e la committenza: resta il fatto che i problemi della progettazione, dell’urbano, delle relazioni sociali e della cultura sembrano scomparire sotto il fascino momentaneo di una progettazione individuale d’effetto. Quella che forza la mano – ma non sempre – anche a chi ha curriculum blasonati come Roche, Pelli ed altri di provenienza e scuola – se il termine è lecito – tradizionale.

Pelli ha un iter per alcuni versi analogo a Roche o Pei. Appartiene agli immigrati di un settore specifico come quello dell’architettura, successivamente naturalizzati americani. Argentino di nascita con radici italiane (nato a San Miguel de Tucumán), si trasferisce negli Stati Uniti facendo tappa negli studi leader dell’epoca, “creatori” di altri leader come quello di Saarinen, Victor Gruen e DMJM. Contrariamente agli altri troverà incarichi notevoli ad ovest come il Municipio di San Bernardino o l’Ambasciata americana a Tokyo. Si rende autonomo con un proprio studio nel 1977. Anni d’oro per gli architetti americani. A chi avesse visitato Los Angeles negli anni ’80 non sarebbe sfuggito il giusto “fuori scala” fortemente colorato del complesso del Pacific Design Center. Un complesso che assimilava l’anima cartellonistica dell’orizzontalità urbana dell’ovest, esaltandola in chiave consumistica non mercificata. Era l’inizio. “It suits it“, “si adatta”, disse in un’intervista al «Times» negli stessi anni: «E nonostante sorga in un quartiere di piccole case la giustapposizione non distrugge la scala».

È forse questa la chiave di lettura di una progettazione che tira ad interpretare piuttosto che non a forzare (vedi il non casuale incarico delle Petronas Towers in Malesia) o imporre rigori di continuità espressive cui riconoscere valori iterativi e universali. È il sistema delle relazioni; e non è poco. Forse ne è anche il limite, per quella certa mancanza di coraggio sperimentale osato nel Pacific Design Center e confluito successivamente in una professionalità correttissima e senza sussulti: certamente plausibile nell’incredibile mole di lavoro svolto. In modo completo: anche sul piano della didattica, con la sua presenza a Yale come preside e con i vari riconoscimenti fra cui l’AIA (American Institute of Architects) Gold Medal del 1995.

I favolosi (per tutti) anni ’80 e ’90 lasceranno il segno. Passando, come al solito, nel calderone culturale ed espressivo di New York e dilatando successivamente l’attività a scala internazionale. A Manhattan resteranno le torri adiacenti a Ground Zero (restaurate dopo l’evento drammatico dell’11 settembre). Tre torri legate dal recupero mnemonico di una serra in chiave moderna (?), il Winter Garden ancora in grado di proporsi, al di là del suo valore formale, quale fulcro compositivo in un’area fortemente disorientante. Più a Nord arriverà l’elegante grattacielo del MoMA, realizzato assieme all’intervento ormai superato dell’ingresso al Museo di Yoshio Taniguchi ed accolto con freddezza sia da Paul Goldberger che dalla critica in generale. Ed ancora (1991) la torre del Carnegie Hall, riconoscibile per la sua matericità e il coronamento terminale contro corrente. Il tutto, a pochi anni dal progetto che lo avrebbe consacrato, ovvero quello delle torri gemelle di Kuala Lumpur (1996), note come Petronas Towers. Torri che esplicitano la caleidoscopicità di pianta innestando elementi del gusto locale nella sempre vincente carta della dualità e della “giusta” scala gigante.

Ed è proprio la scala ad essere “giusta” nella sequenza interminabile dei progetti a venire. Citarne alcuni è un must. One Canada Square a Londra (1991), la torre Repsol a Baires (2008), la torre de Cristal a Madrid (2009), il City Center Resort a Las Vegas (con altri), il Burger Center for Avanced Pediatric Care a Philadelphia (2015), il Solesforce Transit Center a San Francisco, per arrivare al masterplan di Piazza Aulenti con la ben nota torre Unicredit a Milano. Cui si aggiunge il progetto Gioia 22 a firma Gregg Jones dello studio Pelli Clark Pelli. Una sequenza impressionante portata avanti sulla base di un Modernism contaminabile e contaminato. Quello che probabilmente ha evitato che la zona franca che la tipologia del grattacielo comporta, e che costituisce la maggioranza o quasi dei suoi ultimi lavori, non si rivelasse altamente distruttiva, pur essendolo per costituzione. Finendo, come a Milano e a Kuala Lumpur, per diventare tremendamente iconici. Forse non del tutto inconsapevolmente.

 

Autore

  • Silvio Cassarà

    Architetto, insegnante, lecturer e fotografo. Visiting professor presso alcune Università statunitensi, è un attento osservatore della realtà progettuale americana e in particolare newyorkese. Da tempo segue il Modernism americano nella figura dei suoi principali protagonisti.

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Last modified: 4 Agosto 2019