Ritratto a tutto tondo della coppia newyorkese (cui si è aggiunto Charles Renfro), tra sconfinamenti disciplinari, performance, sperimentazioni e critica dell’esistente
Quest’anno la Royal Academy of Arts di Londra ha assegnato il prestigioso Royal Academy Architecture Prize a Elizabeth Diller (Lodz, Polonia, 1954) e Ricardo Scofidio (New York, 1935), un riconoscimento che rende merito al lavoro multidisciplinare dei due architetti (dal 2004 associati con Charles Renfro – Bayton, Texas, 1964), sin dagli esordi (1979) impegnati ad andare “oltre l’architettura” mettendo radici in un humus privilegiato fatto di contrappunti linguistici, riflessioni extra, performance, continue interferenze con ciò che agisce su di noi modificando le nostre stesse coscienze e la capacità d’immaginare, alla ricerca di una sorta di contropartita per l’architettura: da Three Windows (1986) a Bad Press (1993) a Action painting (2008) solo per fare qualche nome. Oggi, del resto, l’architettura non è più una disciplina autonoma ma costantemente in rapporto con tutto ciò che ne espande quotidianamente i confini: dalle immagini, all’elettronica, all’appeal dei processi comunicativi; mentre la forma lascerebbe il posto alla performance e le funzioni ad una serie di funzionalità attraenti che si fanno largo nella fitta giungla di avvenimenti della metropoli contemporanea. In sintesi, questo il carattere del lavoro dei due architetti-intellettuali, non a caso attratti dallo spiazzante potere immaginativo di Marcel Duchamp, maestro nel dissolvere i confini disciplinari tra pittura, scultura, installazioni, linguaggio visivo e testuale.
Il ruolo del video
In particolare, sin dalle prime installazioni, il video rappresenta un vero e proprio apparato pensante tramite cui l’uomo stesso e la propria corporeità finiscono per essere ridondanti, diventando anche il principale mezzo per esporre il proprio lavoro (da Bodybuildings del 1987 a Late Nights on Air del 2018). In tal senso, il video rappresenta per Diller e Scofidio quello che il ready made ha rappresentato per Duchamp. Tra tutti, prova ne sia il progetto della Slow House (1989), in una baia vicino a New York (rimasto interrotto), una casa per vacanze interamente costruita sul tema della vista panoramica, dove non esiste una facciata frontale ma solo una porta d’ingresso ad una promenade che si divarica “lentamente” verso una finestra per inquadrare il panorama tuttavia non reale ma proiettato da un monitor: l’uomo dominato dai meccanismi della visione dove la natura viene convertita in una forma d’intrattenimento. «La nostra opera indipendente non era il mezzo per ottenere un fine», afferma Scofidio, «ma era il fine stesso. Il nostro era unicamente un lavoro di sperimentazione per l’esplorazione dello spazio. […] Accettavamo di essere architetti ma non ci occupavamo di etichette».
Le installazioni e i parchi
È così che nel tempo l’architettura piuttosto che essere costruita in senso tradizionale viene progressivamente svelata nelle sue diverse possibilità di afferire alla nostra esistenza da diverse angolature, come se si trattasse di scenografie o d’installazioni artistiche. La guerrilla art di Vito Acconci (1940-2017) è stata, infatti, un altro punto di riferimento. Con quest’ultimo condividono spregiudicatezza e coraggio nello spingere l’attenzione del pubblico oltre qualsiasi aspettativa, lavorando per zone circoscritte che rielaborano le modalità di convivenza nello spazio urbano, certa nevrastenia, i rituali più noti, mentre loro stessi, nel 1990, vengono descritti da Georges Teyssot come «specialisti in body building, squash, gare automobilistiche, baseball, igiene, androginia, diffondersi delle paranoie e delle patologie di ogni tipo, disegno industriale americano, demografia, uniformi, etichetta, disegni anatomici, apparati chirurgici e sonde».
Si passa così da incursioni in ambiente urbano come Traffic (1981) o Rapid Growth (2001) a veri e propri interventi di recupero e rivitalizzazione della città come nel caso della High Line (2014) di New York, oramai divenuta simbolo di un processo di rigenerazione urbana colta e raffinata che, grazie alla inesauribile poetica di Diller, si è recentemente arricchita di una performance delicata e coinvolgente: The Mile-Long Opera; ideata con il compositore David Lang, ha visto nell’ottobre 2018 coinvolti mille cantanti per cinque giorni consecutivi, e ha trasformato la High Line in un fantastico palcoscenico urbano. «I brani musicali si sono trasformati in un parco», ha dichiarato Diller, «e ora il parco è stato trasformato in un palcoscenico. E questo per me rappresenta un grosso salto».
Il progetto, dunque, non si esaurisce in se stesso ma può essere alimentato da nuove identità che ne aggiornano il divenire come in un programma informatico. Mentre a Mosca, in tempi più recenti, è decollato lo Zaryadye Park (2017) che secondo i progettisti rappresenta «un modo per perdersi nel bel mezzo della città», contro l’idea di “parco formale” molto diffuso in Russia. In questo caso, invece, ognuno può entrare, passeggiare tra le piante, sedersi sull’erba: «ognuno può andare in ogni direzione, e le persone possono riunirsi». La capacità di progettare e contemporaneamente azionare una critica sull’esistente è, infatti, un altro punto di forza dello studio newyorkese. «Il nostro interesse è l’estensione critica del progetto modernista», dichiara Diller che quest’anno ha ottenuto il Jane Drew Prize e che, nel 2018, compare tra le 100 persone più influenti nella classifica del «Time», dove la filantropa Eli Broad la definisce “una visionaria”.
Al centro dell’attenzione della Royal Academy vi è, infatti, il Blur Building, l’edificio temporaneo realizzato in occasione dell’Expo Svizzera del 2002 per la stupefacente sensorialità sprigionata, abbandonando la ridondanza materica per approdare nei terreni fertili della pura sensazione visiva (un edificio fatto di nebbia), di ciò che appare e scompare davanti a noi senza nulla potere, ma solo “da osservare” inermi. Nato apparentemente per una specie di sortilegio architettonico, in realtà si affida a un funzionamento evoluto: attraverso 29.000 ugelli l’acqua del lago viene filtrata e nebulizzata con una pressione regolata da un sofisticato sistema meteorologico. Ancora una volta è la nostra dipendenza dalla visione ad avere la meglio, questa volta da toccare con mano nella sua affascinante inconsistenza. «Blur ci permise per la prima volta di lavorare su scala ambientale… creando uno spettacolo di massa. Abbiamo creato il clima! È stata la nostra prima grande fusione di arte e architettura. Blur era un nome adatto», dichiararono a suo tempo i due architetti.
I progetti “concreti”
Da questo momento in poi, tutta la sperimentazione iniziale nei vari campi disciplinari, puntualmente si riaffaccia nei diversi progetti che lo studio ha iniziato a realizzare “concretamente”, lasciando i musei per entrare a far parte dello scenario urbano. È il caso del Museum of Image and Sound a Copacabana Beach e dello United States Olympic a Colorado Springs (entrambi in fase di realizzazione), mentre il fascino dei tanti rimasti sulla carta resta come traccia di un lavoro sempre ai limiti del possibile (Midtown Tower, New York, 2007; Aros Skyspace, Aarhus, Danimarca, 2007; Taekwondo Park, Muju, Corea del Sud, 2008).
Tra gli incarichi più prestigiosi il nuovo Centre for Music di Londra che comprende spazi per lo spettacolo e la formazione destinati al centro culturale del Barbican, alla London Symphony Orchestra e alla Guildhall School of Music & Drama, che si trovano tutti nelle vicinanze. Il progetto si presenta come un vero e proprio atto di democrazia urbana poiché l’edificio pare convogliare le energie provenienti dal basso della city per farle confluire ai piani alti dove regna l’ascolto e l’apprendimento, permettendo a tutti di avvicinarsi al mondo colto della musica. Si potrà sbirciare all’interno con o senza biglietto, mentre l’idea stessa di edificio viene mutuata in quella di percorso costruito attraverso una serie di rampe-anfiteatro che condensano funzioni tra le più diverse (bar, spazi per la ricerca e la didattica, ecc.), fino alla cima dove si trova The Coda, uno spazio flessibile per eventi e performance contemporanee con vista sulla cattedrale di St Paul e sulla città. «Vogliamo che questo progetto sia trasparente, poroso e accogliente: tutto ciò che non è l’attuale ingresso al Barbican. Vogliamo rompere le convenzioni di un’unica vista centrale», ha affermato Diller. Innovazione che si ritrova già nel Roy and Diana Vagelos Education Center (New York, 2016), presentato nella scorsa Biennale di Venezia, dove la suddivisione per piani dell’edificio è un ricordo grazie alla predisposizione di un nastro continuo denominato Study Cascade, costituito da una rete interconnessa di spazi che creano continuità nei quattordici piani dell’edificio.
«Vorrei essere il Kubrick dell’architettura», dichiarava in un’intervista Diller nel 2007. «Sperimentare un genere diverso ogni volta: un museo, una sala concerti, un albergo, uno stadio, un parco… E’ la sfida dell’imparare qualcosa di completamente nuovo che mi fa andare avanti, non l’eredità del passato». Oggi il desiderio sembra essere esaudito, poiché gli incarichi nei campi più diversi si stanno moltiplicando, mentre a breve verrà inaugurato lo spettacolare teatro con copertura scorrevole The Shed nell’Hudson Yards a New York, dove la scenografia trionfa sull’architettura e il pubblico si contende un posto in prima fila. Che sia l’inizio di una nuova era? Non resta che stare a guardare, mentre la città intorno albeggia d’incertezze e sfugge allo sguardo umano, persa nel delirio della crescita in altezza e degli equilibri perduti.
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Last modified: 20 Marzo 2019