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Francesca PetrettoWritten by: Patrimonio

Tel Aviv, o la felice diaspora del Bauhaus

Tel Aviv, o la felice diaspora del Bauhaus

Seconda tappa di un viaggio nel centenario della più famosa scuola del Moderno. In Israele la “città bianca” ne è considerata la quarta capitale: tra eventi, restauri e valorizzazioni

 

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“Se lo volete non sarà un sogno”

Theodor Herzl (1860-1904) al Primo Congresso Sionista – Basilea, 1897

 

Non sono ancora trascorsi tre mesi dall’inizio delle celebrazioni e già il giubileo Bauhaus ha raggiunto un successo di pubblico davvero planetario. La scelta di anticiparne alcuni attesi momenti clou con eventi internazionali si sta rivelando vincente, forse proprio perché del Bauhaus ricalcano la capacità di aver saputo esportare ovunque nel mondo la sua rivoluzionaria Weltanschauung. Fuori dai confini tedeschi l’esempio più convincente della sua felice diaspora è stato quello di Tel Aviv, la start-up city israeliana che si vede finalmente legittimata del titolo di sua “quarta capitale” e ospiterà quindi in autunno la sua prima Triennale der Moderne. Nel suo rinnovato White City Center avrà luogo una ricca serie di eventi col titolo di “Societies on the Move”: idee, incontri e progetti che indagano le correlazioni fra il fenomeno delle migrazioni d’individui, culture e materiali e la forma urbana, le loro influenze storiche e contemporanee sui paesaggi di un’architettura moderna specchio dell’umanità.

Il Bauhaus è approdato in queste terre sottratte al deserto grazie agli architetti ebrei tedeschi scampati alla Shoah o già prima, importato dai loro precursori est-europei in fuga dai terribili pogrom d’inizio secolo, mettendo radici accanto ai primi insediamenti di cristiani tedeschi e americani già giunti nell’Ottocento. Ne è conseguito un vero miracolo di stile internazionale troppo a lungo sminuito dalla letteratura scientifica, un Mischmasch architettonico reso possibile da un sapiente genius loci che parla molto tedesco, senza dimenticare i tanti dialetti europei degli anni ’20/’40, con solide basi nel passato di più popoli. Da quando nel 2003 l’Unesco la iscrisse nella lista dei World Heritage Sites con la dicitura «The White City of Tel Aviv», la metropoli israeliana ha iniziato la sua nuova, tenace battaglia contro intemperie climatiche e fatalismo storico dei suoi abitanti. Gli sforzi compiuti negli ultimi anni da pochi, volenterosi architetti israeliani e tedeschi iniziano finalmente a dare i propri frutti nonostante le “ben altre emergenze storiche” addotte a lungo a scusa da istituzioni troppo impegnate col presente per pensare alla conservazione del giovane passato. L’ostinato ottimismo progressista su cui è fondato il moderno stato di Israele, così meravigliosamente narrato da Amos Oz, non ha mai voluto concedere troppo spazio al passato, tantomeno costruito, figurarsi al suo recupero, fino a poco tempo fa considerato un’idea tanto più astrusa se messa al confronto con l’unico imprescindibile imperativo della sopravvivenza su tutti i fronti. Cosicché la città bianca ha cambiato lentamente colore, mimetizzandosi sempre più col giallo del deserto contro cui decenni prima aveva strenuamente combattuto.

Un importante cambiamento è avvenuto nel 2015, quando i governi israeliano e tedesco hanno stipulato un patto di collaborazione per l’avvio del piano di restauro del gioiello architettonico cittadino: oltre 4.000 edifici in stile Bauhaus! Il Bundesbauministerium ha sovvenzionato la nascita del progetto «White City Center» con sede nell’iconica Max-Liebling-Haus in Idelson Street (la documentazione del cui restauro completo è visibile sul sito della Fondazione Getty). Moltissimi volontari, specialisti e studenti, sono accorsi da tutta la Germania e gli abitanti di Tel Aviv si son fatti pian piano contagiare dal loro entusiasmo, imparando a prendersi cura del proprio patrimonio: «Israele è un paese ancora molto giovane», spiega l’architetta tedesco-israeliana Sharon Golan Yaron a capo del progetto, «stiamo solo scoprendo la nostra storia e sostenendo la conservazione di questi edifici; il nostro lavoro si concentra sul futuro». Non si tratta solo di una vittoria in termini squisitamente architettonici e identitari: l’investimento sul futuro permette di rispondere nell’immediato alla crescente richiesta di alloggi da parte di migliaia di nuovi arrivati. Tel Aviv sta vivendo infatti una nuova massiccia Aliyah. I pochi sopravvissuti che nel dopoguerra avevano deciso di ristabilirsi in Europa, tornano a vivere in Israele a fronte dei numerosi episodi di antisemitismo registrati in molte città del vecchio continente; comprano casa a Tel Aviv, facendo salire alle stelle i prezzi del mercato immobiliare. Anche molti giovani israeliani fuggono alla volta della city progressista e multiculturale: gli alloggi scarseggiano e i costi di locazione diventano improponibili. Il progetto di Golan Yaron e colleghi prevede incentivi, consulenze e aiuti gratuiti per i proprietari degli edifici Bauhaus disposti a sopraelevarli: in tal modo, preservando la memoria architettonica, si ricavano metrature per nuovi appartamenti da vendere o locare. L’idea non sarebbe affatto dispiaciuta ai profeti del Neues Bauen: «Queste case», continua Golan Yaron, «non sono musei; non siamo in Europa, qui la gente ci vive». La white city si era estesa in larghezza, evitando volutamente sviluppi verticali che potessero rievocare il trauma senza-cielo dei ghetti europei; i suoi abitanti volevano finalmente respirare, ma ora deve concedersi di crescere di qualche metro verso l’alto.

Ha qualcosa della giustizia storica questo riappropriarsi di Tel Aviv, dei suoi spazi e delle sue memorie proprio nel centenario del tedesco Bauhaus. Chi doveva esser annientato ha messo in piedi una meraviglia capace di combattere molte avversità, climatiche e umane. Questo miracolo dev’essere salvato e reso attuale perché continui a essere manifestazione di quell’incredibile rivincita fattasi forma grazie al veicolo eccezionale che è l’architettura, capace qui di giocare splendidamente il suo ruolo di passaparola. La lingua venuta da lontano divenne ibrida, prese molti accenti, usò termini antichi e ne creò di nuovi, per l’alba di un nuovo mondo. Theodor Herzl non ne vide mai la realizzazione ma aveva ben ragione: non è affatto un sogno.

Percorsi di lettura

Theodor Herzl, Lo Stato ebraico, titolo orig. Der Judenstaat, Leipzig und Wien, 1896
Theodor Herzl, Vecchia Terra Nuova, titolo orig. Altneuland, Leipzig, 1902
Lea Luzzati, Theodor Herzl, il sogno diventato start-up, in «La Stampa Cultura», 25 agosto 2017
Arieh Sharon, Kibbutz und Bauhaus, Stoccarda/Tel Aviv, 1976
Irmel Kamp-Bandau, Pe’era Goldman u.a. (Institut für Auslandsbeziehung Stuttgart), Tel Aviv Neues Bauen 1930-39, Tubinga/Berlino, 1993
Anna Minta, Israel bauen: Architektur, Städtebau und Denkmalpolitik nach der Staatsgründung 1948, Dietrich Reimer Verlag, Berlino, 2004
Nitza Metzger-Szmuk, Des Maisons sur le sable. Tel Aviv. Mouvement et Esprit Bauhaus/Dwelling on the dunes. Tel Aviv. Modern Movement and Bauhaus Ideals, Èdition de l’éclat, Parigi/Tel Aviv, 2004
Claudia Stein, Weiße Stadt Tel Aviv, BoD, 2016.

Autore

  • Francesca Petretto

    Nata ad Alghero (1974), dopo la maturità classica conseguita a Sassari si è laureata all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha sempre affiancato agli aspetti più tecnici della professione la passione per le humanae litterae, prediligendo la ricerca storica e delle fonti e specializzandosi in interventi di conservazione di monumenti antichi e infine storia dell'architettura. Vive a Berlino, dove esegue attività di ricerca storica in ambito artistico-architettonico e lavora in giro per la Germania come autrice, giornalista freelance e curatrice. Scrive inoltre per alcune riviste di architettura e arte italiane e straniere

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Last modified: 10 Luglio 2019