Il ricordo di un geniale “progettista di utopie” che ha lottato da sempre per rendere la sua Napoli una metropoli moderna
Aldo Loris Rossi non avrà modo di continuare ad agire come ha sempre fatto, spesso con aggressività mordace e solitaria, da far pensare al libero candore di certa prima infanzia, per poter contribuire ad arrestare almeno in Italia lo sfacelo dei disvalori nei quali anch’essa oggi, appare caduta. Con uno sguardo critico che abbracciava il locale e il globale, ha sempre lottato da architetto e intellettuale per rendere la sua Napoli, abitata sin da bambino, una metropoli moderna e allo stesso tempo per dare luce al dramma ecologico del pianeta indicando, con pochi altri, come invertire la rotta.
Teso a mostrare la molteplice ricchezza che acquisisce lo spazio dell’architettura e della città quando riesce ad aderire alla molteplicità contradditoria della vita, ha insegnato, polemizzato, scritto, progettato edifici coraggiosi per sperimentazione innovativa: liberi, intriganti, stratificati, densi. Basti qui ricordare tre realizzazioni a Napoli: l’edificio residenziale in via dei Capri (1966), l’unità urbana a servizi integrati a Ponti Rossi (1979), premio IN/ARCH, la casa del Portuale (1969-1980). Le pensava, Rossi, sempre inserite nella città che avrebbe voluto e per la quale contemporaneamente lavorava: coerenti frammenti urbani che, forse per questo, possedevano una misteriosa energia rispetto a quanto li circondava. Si rinveniva in essi un’accumulazione di forme e spazi che mettevano insieme, in modo convulso alcune volte, lo slancio dinamico futurista, la matericità neoplastica, la scomposizione miesiana, la fluidità poli-direzionata di Wright, la solitaria visione di Soleri nell’immaginare in tempi insospettabili il futuro, la poetica dell’arte cinetica e programmata degli anni Sessanta.
Ma tutto, una volta assimilato, veniva rielaborato e risemantizzato: ecco che in una delle sue prime realizzazioni la rettilinea scomposizione della poetica di Mies sposa il plasticismo di Le Corbusier e si traduce in una spazialità costruita da setti curvilinei; ed ecco ancora, nella casa del Portuale, la colonna trasformata in un robusto vocabolo composito, ibridato da plurime funzioni: strutturali e impiantistiche, variabile di scala nell’assecondare la richiesta del tema. Si traducono in quello che Rossi chiama “punti fissi”, un’invariante nei suoi progetti.
Una miscela la sua architettura, vertebrata dalla dissonanza. Come le avanguardie a lungo meditate, il progetto per lui era cambiamento, prefigurazione di futuro; e così organizzava e dava forma allo spazio fisico. Lo si vede ancor più quando si libera dai restrittivi condizionamenti economici normativi e burocratici del nostro paese: negli splendidi disegni per la casa (collezione del Centre Pompidou) e i servizi sociali del Portuale a Napoli e per la sede Fiat Novoli a Firenze, in cui l’assemblaggio multi-direzionato di vocaboli profondamente diversi tra loro restituivano la leggerezza luminosa di forme che si librano nello spazio; e ancora nella città-struttura a sviluppo verticale, complessa morfologicamente quanto funzionalmente; più che una megastruttura, come fu definita, un organismo eco-sostenibile, pensato per generare la ricchezza implicita in un habitat dove fiorisce la vita. La sua complessa tridimensionalità reintegra quanto nella città razionalista è separato, e la sua densità non coarta slancio e leggerezza spaziale. Un non finito, essendo una forma aperta alla crescita. Ideato con Donatella Mazzoleni, vince il Nombre d’or al Grand Prix International d’Urbanisme et d’Architecture 1969/70 “Recherche pour une ville nouvelle”.
Tali architetture disegnate si compongono in un’unità formale talmente dinamica e pur tuttavia lieve nella loro accentuata tridimensionalità anti-prospettica, da sembrare permeate da un movimento generato, durante il processo del loro farsi, dalla resistenza offerta a qualcosa di simile a un’eccessiva forza gravitazionale.
Rossi gettava semi, e così ha continuato a fare sino ai primi mesi del 2018, andando infine in quel là a noi tutti ignoto che io chiamo altrove. Dal 1964 al 1982 aveva avuto al suo fianco una compagna – Donatella Mazzoleni – di grande intelligenza e sensibilità, le cui diversità nel comune progettare si alimentavano a vicenda. Il 10 maggio 1981 così di lui scriveva Bruno Zevi, cogliendo il valore non solo nazionale dell’edificio costruito nel degradato litoraneo di Calata della Marinella: «Su Aldo Loris Rossi si può scommettere, perché la sua fibra artistica ed umana non conosce inerzie, stanchezze e cedimenti evasivi».
Essendo a suo modo un eretico, tra gli storici, soltanto Alessandra Muntoni lo cita per il modello organico della Città verticale, Massimo Locci ne evidenzia la complessità metodologica coniugata ad un’accentuata istanza sperimentale, e per Luigi Prestinenza Puglisi è «il più geniale degli architetti metropolitani italiani, un progettista di utopie». Ma hanno taciuto Manfredo Tafuri, Renato De Fusco, Francesco Dal Co. Peccato; hanno perso non solo loro ma anche la loro storia dell’architettura moderna e contemporanea, anche se un architetto come Aldo nella storia, avendo contribuito a farla, ci è già entrato.
La sua era diventata nel tempo una visione in cui l’architettura, in inscindibile unità con l’urbanistica, doveva ritrovare i suoi ineludibili legami con gli ecosistemi della terra, con l’etica richiesta dal pianeta cui “umani, animali, vegetali, minerali”, tutto appartiene. Questa la ragione che legittimava, specie nell’ultimo ventennio della sua ricerca, la sostanza del suo agire, la cui più compiuta sintesi è Eco-Neapolis, il ridisegno del waterfront di Napoli innervato dall’istanza di rigenerarlo reintegrandolo alla città e al suo mare, svelandone allo stesso tempo la ricchezza della sua storia.
Dopo lunghissimi intervalli di tempo, capitava di risentirci con continuità, e ultimamente il confronto, dai problemi urbanistici del nostro sud, si spostava sul perché della discesa progettuale, culturale, etica e politica di gran parte del mondo, chiedendoci come i cosiddetti intellettuali avrebbero dovuto agire. Con pari passione coniugava insieme all’architettura e all’urbanistica l’impegno politico. Un militante come, ciascuno in modo diverso, quelli che indica suoi maestri: Michelucci, Zevi, Soleri. Ma per Rossi, aggiungo, c’è anche quanto ha inalato da studente d’architettura: il rispetto dell’intero patrimonio paesaggistico e la rivendicazione di una professionalità responsabile di Roberto Pane, la capacità di mettere in luce l’ineludibile rapporto uomo-ambiente nel leggere i contesti di Giulio De Luca, la divulgazione della cultura urbanistica nordica di Michele Capobianco.
Immagini tratte da: Massimo Locci, Aldo Loris Rossi. La concretezza dell’utopia, Testo&Immagine, Torino, 1997 e da Aldo Loris Rossi, Eco-Neapolis. Il ridisegno del waterfront, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012
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Last modified: 13 Novembre 2018