Con “David Chipperfield Architects. Works 2018” venti progetti raccontano la produzione recente dei quattro studi dell’architetto inglese segnando il ritorno delle grandi mostre in Basilica Palladiana
VICENZA. Molti ricorderanno una felice stagione di mostre dedicate ad alcuni bei nomi dell’architettura contemporanea, organizzate a partire dal 1985 nella Basilica Palladiana. Da Mario Botta a Alvaro Siza, da Tadao Ando a Sverre Fehn, da Oswald Mathias Ungers a Kazuyo Sejima: a ciascuno il suo preferito unitamente ad una mirabolante palestra di allestimenti d’autore. Dopo più di un decennio d’interruzione per i lavori di restauro del monumento (ultimati nel 2012, ndr.), l’associazione vicentina Abacoarchitettura riesce finalmente a riprendere il filo di questa tradizione del mostrare “l’architettura nell’architettura”, chiamando un personaggio ecumenico dell’attuale star system ad aprire una nuova, auspicabile programmazione. “David Chipperfield Architects. Works 2018″, mette in scena una selezione di circa venti progetti della produzione più recente (molti edifici appena terminati o in fase di inaugurazione, altri ancora in progress) dei suoi studi.
L’architetto inglese, infatti, non è uno e bino e nemmeno trino, ma si è fatto letteralmente in quattro, dividendosi tra lo studio aperto a Londra nel 1985, una seconda sede a Berlino (l’anno dopo essersi aggiudicato il concorso per il Neues Museum nel 1997), e due ulteriori gemmazioni a Shanghai e a Milano. Come farà questo compassato sir a gestire una tale mole di lavori, non lo sappiamo: certo è che eleganza e misura, rigore e controllo, riconoscibilità senza scadere in stilismo, modernità e classicismo sono qualità che sa trasfondere nei suoi progetti, tutti perfettamente fitted al tema e al luogo, come l’impeccabile abito indossato durante la vernice dal fondatore dello studio.
Con altrettanta eleganza e understatement, quello dell’architetto inglese è solo uno dei circa 270 nomi riuniti nel manifesto-logo della mostra, un lungo elenco di tutti i partner, gli associati e i responsabili dei progetti (una quarantina gli italiani). Potrà sembrare poco accattivante, in un’epoca in cui l’architettura, almeno a livello di media, è veicolata attraverso immagini sempre più spinte: eppure questo è lo spirito della mostra che, senza ammiccamenti, mediazioni multimediali o post-produzioni, vuole raccontare l’esperienza progettuale dei quattro studi DCA per come si svolge. Non una retrospettiva, quindi, ma una presa diretta sui tavoli di lavoro, con i gruppi degli architetti responsabili di ciascun progetto coinvolti in prima persona come curatori della relativa parte di esposizione, per svelare i temi, i processi e anche la diversità delle idee e degli strumenti di volta in volta utilizzati.
Questa scelta rende l’esposizione ricca e articolata, ritmando i materiali esposti, di varia natura e scala, all’interno di un layout progettato dal protagonista della mostra, altrettanto limpido e raffinato. Anche in questo caso, nessuna concessione alla teatralità, ma una rispettosa mediazione tra le proporzioni del Salone dei Cinquecento e la dimensione necessariamente più raccolta dei piani espositivi. Quinte in abete creano entro la Basilica ambienti differenti per ciascun progetto, capaci di accogliere dai grandi modelli a scala urbana ai plastici di studio, dalle gigantografie agli album dei disegni di dettaglio.
In apertura del percorso di visita, inevitabile una carrellata sul repertorio: anche i Rolling Stones in ogni concerto non possono non proporre alcuni dei loro pezzi. E allora Start me up con la doppia infilata dei ritratti in chiave grafica di alcuni dei progetti più noti dello studio, a incorniciare una sequenza di teli sospesi nella volta del salone sui quali sono proiettati filmati e video.
La selezione delle opere è eterogenea per temi, luoghi e scale di progetto, con l’obiettivo di mettere in evidenza la duplice responsabilità dell’architettura nella società contemporanea: che riguarda in primo luogo il carattere fisico e la materialità degli edifici, dunque l’aspetto prestazionale; ma perché ci sia una ragion d’essere di questa fisicità è necessario un coinvolgimento con i temi e bisogni che la società esprime, a fronte di un peso sempre più rilevante del settore privato.
Nei musei, i due universi del pubblico e del privato convivono in maniera naturale. E di musei DCA ne sforna come fossero crostate dalla ricetta collaudata. Ecco in sequenza il masterplan per la Royal Academy of Arts di Londra e il progetto per la Kunsthaus di Zurigo, un museo d’arte contemporanea privato in Slovenia e un ciclopico Museo di Storia Naturale a Zhejiang, in Cina. Sarà uno dei più grandi del mondo, ma è stato progettato senza conoscere nulla di quello che dovrà contenere: paradossi del mondo cinese. Anche per il West Bund Art Museum di Shanghai ad un certo punto della costruzione il rapporto con lo studio Chipperfield è stato interrotto, ma la provvidenziale entrata in scena del Centre Pompidou per la gestione degli spazi ha fatto sì che i progettisti fossero di nuovo chiamati a completare l’opera. Un nuovo tassello del ventennale impegno sull’Isola dei musei di Berlino, la James Simon Galerie, è l’occasione per approdare nella città tedesca, dove lo studio sta lavorando anche al restauro della Neue Nationalgalerie: spettacolare il confronto tra i disegni originali di Mies van der Rohe e le tavole del progetto, a dimostrare la rispettosa attenzione per questo capolavoro nonostante la necessaria messa a punto di alcuni nodi tecnologici e funzionali.
Non mancano in mostra un progetto in Giappone (il centro visitatori del cimitero di Inagawa), uno dei primi paesi ad aver dato risalto all’opera di Chipperfield, altri edifici privati direzionali e residenziali (Seul, Londra, Zurigo), fino ai raffinatissimi interiors per lo shopping griffato (Valentino, Brioni) dove il gradiente sociale dell’architettura è sicuramente minimo, mentre è massimizzata la ricerca sui materiali e sui dettagli, grazie al fondamentale apporto di alcuni insostituibili fornitori. A fare da contraltare, un progetto di ricerca a scala territoriale per la Fundación RIA sullo sviluppo e la tutela della zona della Galizia affacciata sull’Atlantico (dove lo stesso architetto ha costruito la sua casa per vacanze).
Infine, a sottolineare un legame con la città che ospita l’esposizione, troviamo il progetto per Cava Arcari a Zovencedo (Vicenza), uno straordinario e monumentale vuoto derivato dall’estrazione dei blocchi di Pietra di Vicenza. Dalla collaborazione professionale con la famiglia Morseletto è nata la proposta di realizzare nella cava dismessa una piattaforma per le sedute degli spettatori in occasione di eventi e spettacoli: il prossimo giugno l’inaugurazione, con un concerto di Michael Nyman.
Una mostra senza curatela eppure (o proprio per questo?) efficace e limpida: per l’interpretazione critica ci saranno altre occasioni, gli articoli, i libri, persino le recensioni. Intanto, Vicenza val bene una mostra: fino al 2 settembre, Chipperfield, Palladio (e baccalà a parte) nella “splendida cornice” della Basilica.
In copertina: un’immagine dell’allestimento interno della Basilica Palladiana © Rik Nys
David Chipperfield Architects. Works 2018
Basilica Palladiana, Vicenza
12 maggio – 2 settembre
About Author
Tag
allestimenti , david chipperfield , mostre , Vicenza
Last modified: 16 Maggio 2018
[…] all’afflato internazionale dell’architettura global in Basilica Palladiana con la mostra su David Chipperfield, replica quella che viene annunciata come una grande retrospettiva intitolata “Il Tempo […]