In attesa che si completi l’iter legislativo che lo renderà operativo ai sensi del Codice dei Contratti, alcune riflessioni sulla partecipazione politica guidata per la realizzazione delle opere pubbliche in Italia
Il Dibattito pubblico è stato introdotto nell’ordinamento italiano nel 2016 all’interno del nuovo Codice dei Contratti (D.L. 18 Aprile 2016, n. 50, art. 22) dopo alcuni timidi tentativi normativi, nel 2012 e 2013, e con alle spalle una decennale sperimentazione in alcune regioni italiane. La sua istituzione è riconducibile alle pratiche promosse dalla legislazione europea (Libro bianco sulla governance europea del 2001) e dall’OECD e sperimentate a livello locale sotto forma di giurie, bilanci partecipati, consensus conferences per ricostruire un rapporto tra cittadini e istituzioni, incrinatosi per la sfiducia che questi ultimi nutrono nei confronti del sistema di potere, e rispondere a una crescente domanda dei cittadini di poter contare di più, di essere parte attiva all’interno di procedure istituzionali riconosciute. L’operatività della disciplina è stata rinviata, nei suoi contenuti essenziali, a un D.P.C.M. per definire i tempi e le modalità di partecipazione da parte dei portatori di interessi e dei comitati di cittadini. Il 12 febbraio scorso, in attuazione dell’articolo 22, comma 2 del Codice dei Contratti, il Consiglio di Stato si è espresso sullo schema di D.P.C.M. sul Dibattito pubblico individuando criticità e suggerendo correzioni per rendere il testo coerente con le finalità previste dal Codice.
In attesa che si completi l’iter legislativo che lo renderà operativo, è possibile evidenziare alcuni elementi distintivi del modello proposto, in larga parte riconducibile alla logica del débat public francese. È facile comprendere la necessità di contenere la conflittualità su progetti di grandi opere con un rilevante impatto ambientale, economico e sociale sul territorio interessato. Alla luce di un potenziale contenuto divisivo, l’obiettivo sotteso al provvedimento è quello di migliorare la qualità del consenso piuttosto che perseguire una generica istanza emancipativa legata alla partecipazione.
È utile ricordare che esperienze partecipative sono state attuate da amministrazioni locali ed enti pubblici e privati in Toscana nel Comune di Montaione (Firenze) per decidere sulla realizzazione di un complesso turistico (2007), a Livorno per la riqualificazione del porto cittadino (2016), a Gavorrano (Grosseto) per scegliere sul ripristino dei siti di attività estrattive presenti nel territorio comunale (2017; nell’immagine di copertina, la sequenza delle azioni), in Molise a Termoli (Campobasso) per la riqualificazione del centro storico (2016), in Liguria per valutare le cinque diverse ipotesi di tracciato del tratto autostradale Voltri-Genova Ovest (2009). Seppur in contesti e secondo modalità differenti, tali iniziative hanno determinato ricadute positive per la soluzione e la condivisione di importanti trasformazioni urbane e territoriali da parte delle comunità interessate.
Andando a ritroso nel tempo, già agli inizi degli anni ’70, l’urbanistica italiana aveva riflettuto criticamente sulla progettazione anticipando il modello della partecipazione e dell’inclusione, codificato oggi dal Codice dei Contratti nell’istituto del dibattito pubblico. Tra i primi architetti italiani, Giancarlo De Carlo teorizzò e sperimentò la consultazione pubblica con istanze e osservazioni delle parti interessate alla realizzazione di un’opera pubblica. L’architetto genovese fu incaricato dalle Acciaierie di Terni di ristrutturare un quartiere residenziale per gli operai. Il Villaggio Matteotti a Terni (1969-1974) è un esempio di architettura della partecipazione che traduce la riflessione di De Carlo sulla necessità della conoscenza dei luoghi e del coinvolgimento di chi lo abita, sollecitando il concorso di giudizio e di azione dei futuri abitanti per il compimento di un buon progetto.
Nei fatti l’art. 22 apre la strada alla partecipazione dei portatori d’interessi, sottolineando esclusivamente l’esigenza della trasparenza del procedimento. Il dibattito diviene obbligatorio solo per alcuni progetti in base a una tipologia o soglia dimensionale (il punto è ancora da definire e spetterà al presidente del Consiglio dei Ministri con decreto). Le comunità locali potranno esprimere le loro valutazioni di merito sul progetto di fattibilità, prima della definizione finale. La norma definisce sinteticamente la cornice procedurale che serve a strutturare il dibattito per la pianificazione delle opere pubbliche. In un quadro di difesa della trasparenza del processo partecipativo sono delineati gli elementi essenziali per l’avvio del débat. La promozione del processo è demandata alle amministrazioni aggiudicatrici che hanno l’obbligo di rendere pubblici oltre ai progetti di fattibilità relativi a opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulla città o sull’assetto del territorio, anche l’insieme dei documenti che dimostrano l’attività dei gruppi d’interesse o dei comitati dei cittadini: resoconti d’incontri, contributi e proposte, unitamente ai documenti predisposti dall’amministrazione e relativi agli stessi lavori. Grazie alla produzione di studi, di dossier specifici e di una discussione strutturata si dispone un confronto in cui l’ente proponente è più consapevole delle caratteristiche e dei problemi del territorio e le comunità locali sono più informate degli aspetti tecnici dell’opera. L’amministrazione aggiudicatrice convoca una conferenza per enti e amministrazioni interessate o altri portatori d’interessi, fino a ricomprendere comitati spontanei dei cittadini.
Il dibattito può essere organizzato in modi diversi all’interno di un quadro temporale di quattro mesi e di requisiti di pubblicità della procedura: la pubblicazione sul sito web del proponente del progetto di fattibilità tecnica ed economica e di altri documenti relativi all’opera; la raccolta di osservazioni tramite posta elettronica; lo svolgimento di dibattiti pubblici nel territorio interessato; la pubblicazione, sul sito del soggetto proponente, dei risultati della consultazione e dei dibattiti, nonché delle osservazioni ricevute, anche per sintesi. Il quadro normativo prevede (art. 22, comma 4) che gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte siano “valutate in sede di predisposizione del progetto definitivo” e siano “discusse in sede di conferenze di servizi relative all’opera sottoposta al dibattito pubblico”.
Secondo questa logica e in attesa del decreto attuativo, il dibattito si presenta come un istituto partecipativo-consultivo che privilegia la ricchezza delle argomentazioni piuttosto che una necessaria convergenza tra gli attori. L’auspicio è che il rapporto diretto con i cittadini, che hanno interesse alla tutela e alla riqualificazione dei luoghi in cui vivono, possa ridurre le contestazioni, assicurare una maggiore accettazione sociale e così contribuire alla risoluzione di problemi di concerto con l’ente proponente l’opera pubblica.
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Last modified: 16 Marzo 2018