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Caterina MontipòWritten by: Città e Territorio

Stati Uniti, così si sono riciclate le fabbriche/1

Stati Uniti, così si sono riciclate le fabbriche/1

Report dai luoghi della reintegrazione della produzione tra New York, San Francisco e Chicago: da spazi abbandonati a piattaforme di emancipazione di economie materiali urbane

 

Se la deindustrializzazione aveva da tempo lasciato alle città nordamericane un’eredità di spazi e infrastrutture industriali abbandonate o sottoutilizzate, già da prima degli anni ’80 alcuni segnali rivelavano che il vento stava cambiando. Infatti, a partire da allora, nei medesimi luoghi si andavano registrando le prime esperienze alternative (bottom-up) e le prime riconversioni simbolo di una ripresa economica che faceva leva su educazione, innovazione, servizi e cultura. Il tutto, legato a quelle attività manifatturiere che, per scelta o necessità, erano rimaste attive nel cuore dei contesti urbani. Tali esperienze pilota (vedi box in basso) erano accomunate da alcuni punti chiave: 1) il porre radici per lo sviluppo di dinamiche di rigenerazione urbana incrementali e dal forte impatto socio-economico sul lungo termine alla scala locale; 2) il presentare processi di riattivazione e gestione di tipo mission-driven, radicati nel contesto locale, spesso no-profit e legati a risorse economiche miste tra capitale privato, equity found e incentivi pubblici; 3) la riconfigurazione di spazi spesso concepiti per un’unica impresa in complessi multi-impresa flessibili capaci di assorbire riduzioni, espansioni e turnover di imprese ed attività, i cui servizi in comune assumono un valore fondamentale.

Le rivoluzioni tecnologiche che a partire dal secondo Novecento coinvolgono reti e comunicazioni, iniziano a influenzare il settore dell’hardware e della produzione con innovazioni come la manifattura additiva e la robotica, che trovano impulso sempre maggiore nel nuovo millennio. A sovvertire le logiche industriali (e non solo) si aggiunge la maker economy, che introduce modelli alternativi d’impresa e di empowerment sociale; sfumano così i confini tra hardware e software, tra innovazione/design e produzione, tra produzione e assemblaggio e, infine tra designer, produttori e consumatori. Si arriva a parlare di una fabbrica smaller-cleaner-smarter, che sottintende spazi e processi produttivi nuovamente compatibili con i contesti urbani.

Al volgere del nuovo millennio, alle attività manifatturiere tradizionali già presenti nelle città si affiancano nuove imprese produttive (economie urbane materiali o urban manufacturing, come le definisce nel 2009 Saskia Sassen in Cities Today) a supporto dell’ormai dominante settore dei servizi. Lo scenario delle piccole e medie imprese manifatturiere acquista sempre più importanza nelle città statunitensi, in particolare negli ultimi due decenni: nel 2007, il 36% delle imprese impiega meno di 5 persone, il 70% meno di 20 e il 91,4% meno di 100, la maggior parte delle quali localizzate nelle dieci principali città degli Stati Uniti (Mistry N. & Byron J. 2011, The Federal Role in Supporting Urban Manufacturing, report, Brookings Institution). Con la consapevolezza che non si ritornerà ai numeri degli heyday dell’industrializzazione americana, tra il 2009 e il 2016 l’impatto del settore manifatturiero è aumentato circa del 30%. Inoltre, a valle della crisi oltre 1 milione di persone sono state assunte nel settore, per un totale di 12,5 milioni di lavoratori, l’8,5% del totale (fonte: National Association of Manufacturers).

Nelle città si collocano tendenzialmente startup, piccole e medie imprese che svolgono attività legate alla produzione e all’innovazione, il cui processo produttivo (customizzato, just-in-time, in piccoli lotti) non richiede particolari specificità tecniche e spaziali, per cui riescono a riadattarsi negli spazi industriali vacanti; spazi generici e flessibili, facilmente adattabili a diverse conformazioni e organizzazioni. Esperienze di riuso che nascono come fenomeni marginali di salvaguardia di attività economiche non più considerate fondamentali per le città, diventano successivamente piattaforme di emancipazione di economie materiali urbane innovative. Progetti come quelli approfonditi di seguito sono diventati punti di riferimento di nuove esperienze significative che, a partire dagli anni, 2000 si sono diffuse in numerose città nordamericane. La stabilità dimostrata da queste imprese durante e dopo la crisi ha suscitato l’attenzione di economisti, pianificatori e politici, sviluppando così una maggiore sensibilità verso la reintegrazione di alcune attività industriali nelle città e nella pianificazione urbana.

 

Leggi la seconda parte

 

 

Alle origini delle riconversioni: 4 casi studio

SAN FRANCISCO, 1975. Angelo Markoulis acquista il complesso dell’American Can Company (70.000 mq), dismesso dall’impresa sei anni prima. Lo occupa solo parzialmente con la sua attività e affitta il restante spazio per stoccaggio e manifattura. Nel 1985 l’edificio ospita circa 35-40 imprese medio-grandi di manifattura tradizionale. Nei decenni successivi si assiste ad un radicale cambiamento nelle attività ospitate che hanno sempre più un’attitudine aperta e collaborativa: ad oggi l’edificio accoglie una comunità oltre 285 imprese che variano tra studio d’artista, imprese creative e high-tech, manifatture, no-profit, stoccaggio e ristorazione, occupando spazi che variano tra i 25 e i 3.200 mq. L’edificio dunque è passato da mono-impresa a multi-impresa sottoutilizzato a hub flessibile e riconfigurabile dalla comunità di imprese che ospita.

CHICAGO, 1980. Il gruppo di imprenditori Industrial Corridor of Nearwest Chicago (ICNC) – già attivo dalla fine degli anni ’60 per preservare le loro attività e i lavoratori dal degrado della zona – istituisce una no-profit, la Kinzie Industrial Development Corporation (KIDC) per acquisire e rifunzionalizzare un complesso di edifici industriali, ex fabbrica di impianti e tubature. I circa 39.000 mq dei quattro edifici vengono riconfigurati come incubatore multi-impresa dedicato a piccole e medie imprese manifatturiere. La ICNC ad oggi oltre a gestire questo spazio (Fulton-Carrol Center) svolge anche un ruolo di advocacy e consulting per le imprese, altri incubatori e per l’intero corridoio industriale. Solo nel 2016, 17 imprese si sono aggiunte alle oltre 110 imprese già ospitate dall’incubatore, 7 si sono espanse, 358 sono state supportate e assistite e 270 nuovi posti di lavoro sono stati generati da queste attività.

NEW YORK, 1981. L’amministrazione della città istituisce un’organizzazione no-profit, la Brooklyn Navy Yard Development Corporation (BNYDC) per occuparsi della gestione del Brooklyn Navy Yard (BNY), arsenale di circa 122 ettari definitivamente dismesso nel 1966. Viene intrapreso un percorso di riqualificazione incrementale e riorganizzazione degli spazi industriali ancora in corso. L’obiettivo è quello di trasformare il BNY in un parco industriale diversificato, dedicato ad imprese manifatturiere capaci di generare un forte impatto socio-economico locale. Nel 1998 il BNY è occupato circa al 98% da più di 200 imprese per oltre 3.000 posti di lavoro, raggiungendo velocemente negli anni successivi piena occupazione degli spazi disponibili. Dal 2010 in poi consistenti investimenti per riqualificazioni e nuove costruzioni portano il BNY ad ospitare attualmente circa 400 imprese in 60 edifici per 7.000 posti di lavoro – raddoppiando così i numeri di 15 anni prima. La recente riqualificazione del Building 77 aggiunge 3.000 ulteriori posti di lavoro e circa 93.000 mq sia per nuove imprese che per quelle già parte del BNY pronte a crescere e scalare la produzione in-place. Tra rigenerazioni e nuove costruzioni la BNYDC prevede, con le sue imprese, di arrivare ad offrire oltre 17.000 posti di lavoro entro il 2020.

NEW YORK, 1992. Si formalizza la Greenpoint Manufacturing and Design Center, no-profit attiva informalmente già dagli anni ’80, con l’obiettivo di preservare un edificio industriale a Greenpoint (Brooklyn) da demolizione o riconversione, oltre a proteggere le attività manifatturiere ospitate nell’edificio da dislocamento ed emarginazione. In quell’anno l’edificio (circa 33.500 mq) viene acquisito, riabilitato e riorganizzato per ospitare anche ad altre imprese. Ad oggi la GMDC ha riqualificato e riconvertito da mono- a multi-impresa sette edifici distribuiti tra Brooklyn e Queens con l’obiettivo di dare spazio ad attività economiche fonte di reddito e generatrici di posti di lavoro diversificati (high-skilled e blue-collar). Attualmente, con i cinque edifici che gestisce, la GMDC offre spazio (circa 56.000 mq a prezzo agevolato), infrastrutture, e altri servizi a 111 piccole e medie imprese manifatturiere per un totale di oltre 620 posti di lavoro diretti a cui si aggiungeranno, entro il 2020, i 1.200 previsti dall’ottavo progetto in corso.

 

Autore

  • Caterina Montipò

    Nata del 1988, si forma come architetto tra il Politecnico di Milano e la Universitat Politècnica de València lavorando in particolare su progetti che affrontano la relazione tra architettura industriale e paesaggio agricolo. Svolge attività professionale in diversi studi tra Cile e Italia. Attualmente dottoranda presso il Politecnico di Torino, la sua ricerca si focalizzano sulla dinamica città-industria. Svolge attività di ricerca presso la Carnegie Mellon University e in sei differenti città degli Stati Uniti, osservando casi di riuso a scopi produttivi e i processi di reintegrazione della produzione in contesti urbani.

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Last modified: 18 Dicembre 2017