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Luca BullaroWritten by: Progetti

Colombia, scuole come condensatori sociali

Colombia, scuole come condensatori sociali

Integrazione di modelli pedagogici sperimentali e pratiche di cittadinanza attiva in tre interventi emblematici realizzati nelle aree marginali del Paese sudamericano, da alcuni anni protagonista della scena architettonica

 

Da alcuni anni in Colombia sta sorgendo un sistema di opere aperte alla comunità che ha come obiettivo rigenerare, a partire dalla cultura e dall’educazione, i piccoli centri rurali. La sfida è far risorgere le campagne, le piccole realtà locali, con le loro specifiche caratteristiche, differenti nelle varie regioni del Paese, attraverso una rete di piccole scuole polifunzionali: centri per la didattica, per l’educazione permanente e, quindi, per l’integrazione sociale. In altre parole, progetti d’istruzione inclusiva e partecipativa con l’obiettivo di facilitare l’accesso alle informazioni e alla conoscenza da parte delle giovani generazioni.

Costruire un paese diverso a partire dalle periferie è uno dei più recenti punti forti della politica locale, al fine di perseguire un futuro pacifico per i territori rurali, sapendo che povertà e ingiustizia sono figlie dell’ignoranza. Le scuole, con i servizi aperti alla comunità, rappresentano importanti centri di aggregazione in cui maturare un nuovo senso dell’integrazione, della cittadinanza, della convivenza civile e pacifica.

Il ruolo attuale delle strutture educative in Colombia, come afferma il critico cileno Richard Gerald, Riguarda un modello polifunzionale con una maggiore capacità di comprendere le dinamiche e le tensioni sociali del contesto. Si è cercato negli ultimi anni di trasformare le scuole in “condensatori sociali”, affermando la capacità dell’architettura di modificare il comportamento sociale, rompendo la singolarità programmatica a favore di uno spazio inclusivo ed equo.

C’è speranza se questo accade in Colombia”. Parafrasando Mario Lodi, grande pedagogista, la costruzione di tante nuove scuole in un paese conosciuto nel mondo fino a pochi anni fa per la violenza e gli enormi squilibri sociali, fa credere che la cultura e l’autoconsapevolezza di comunità fuori dai normali circuiti del sapere possano cambiare una nazione.

Progettare edifici educativi, dopo avere ascoltato i bisogni delle comunità cui sono destinati, e addirittura realizzarli con la loro fattiva collaborazione, come è accaduto a Villa Rica nella regione del Cauca, una delle più problematiche del paese, ha generato una nuova identità e un sentimento di appartenenza; una sorta di “autocostruzione” fisica e sociale. Ciò ha permesso che le comunità prendessero coscienza della loro cultura e che finalmente potessero esprimere se stesse: le loro tradizioni e valori, minacciati costantemente dalla globalizzazione, da una cultura “altra” che continua la sua incessante opera di colonizzazione contemporanea.

Di seguito, presentiamo tre opere che sono riuscite a integrare le dinamiche dei contesti specifici con le pratiche pedagogiche, generando modelli educativi attivi nella costruzione della città: ad esempio, un sistema di attrezzature flessibili per accogliere vari tipi di scenari civici e formativi. Sono opere di piccole dimensioni, ma concettualmente complesse, che si adattano ai differenti contesti climatici, geografici e culturali e che permettono tipologie molteplici di attività educative, aperte non solo ai giovani ma a tutta la comunità.

 

Centro di sviluppo infantile “El Guadual” a Villa Rica (2015)

Progetto: Daniel Joseph Feldman Mowerman, Iván Dario Quiñones Sanchez

Il Centro di sviluppo infantile “El Guadual” -in Colombia il bambù si chiama “guadua”- nasce per fornire educazione, svago e servizi di ristorazione a trecento bambini Fino ai cinque anni, donne in gravidanza e neonati nel comune di Villa Rica, nella regione del Cauca. Fa parte del progetto educativo del governo denominato “De Cero a Siempre” (da zero a sempre).

E’ frutto di un intenso processo partecipativo avviato qualche anno fa che ha coinvolto la comunità con laboratori di progettazione con i bambini, i genitori e gli amministratori, sviluppando un orgoglioso senso di appartenenza.

Il patio centrale è affiancato da un sistema di corridoi aperti ma coperti realizzati in bambù, nonchè da una serie di moduli per le aule la cui giustapposizione ricorda concettualmente i progetti di scuole realizzati dal tedesco Hans Sharoun.

Attorno al patio si affacciano aule di tipo differente per le varie fasce d’età, la ludoteca, il refettorio e una grande aula multidisciplinare aperta agli adulti negli orari in cui i bambini sono assenti e nei fine settimana, dove si svolgono attività culturali di vario tipo. Locali ubicati intorno alla generosa zona verde, con i giochi per i piccoli, il cinema-teatro e gli orti. I vari spazi sono raccordati da piattaforme e percorsi pedonali che s’integrano con il tessuto urbano adiacente.

Le zone per i bambini, come scrivono gli autori del progetto, sono state progettate seguendo la metodologia pedagogica sperimentata a Reggio Emilia (Reggio Children), dove gli spazi e i giochi sono essi stessi fattori di crescita.

Il progetto è un buon esempio di architettura “low-tech”, in accordo con il clima tropicale della regione e rispettosa dell’ambiente: strategie per la raccolta dell’acqua, uso di luce e ventilazione naturali, orientamento delle classi tenendo conto del movimento del sole e del vento, uso di materiali locali -come il resistente ed economico bambú- e riciclati. Il tutto, attualizzando tecniche costruttive tradizionali.

Le pareti sono in calcestruzzo ocra, le cui casseforme in bambú ricordano le antiche costruzioni coloniali del paese, realizzate in tapia, una tecnica tradizionale basata sull’uso di spessi muri in terra.

Grazie all’elaborazione e costruzione partecipata, agli spazi aperti alla collettività, il centro appare oggi come uno degli spazi culturali più importanti della città, nel quale le diverse generazioni interagiscono dando vita ad un ambiente positivo per la crescita e lo sviluppo intellettuale della comunità.

 

Parco educativo di Marinilla (2016)

Progetto: Giancarlo Mazzanti

Marinilla è un centro a una quarantina di chilometri dal capoluogo di Antioquia, Medellìn, passato alla storia per l’eroismo dei suoi abitanti combattenti nelle lotte per l’indipendenza della Colombia. L’obiettivo principale dell’intervento è stato quello di fornire alla comunità un luogo in cui conoscere il proprio patrimonio culturale e storico, conservarlo e promuoverlo. L’edificio è progettato come uno spazio aperto ma coperto, in cui le pratiche rilevanti della cultura paisa, come il giardinaggio, l’agricoltura e l’artigianato, si svolgono intorno alle aule, in costante contatto con la vita del paese.

Il progetto si presenta come un ufo delicatamente appoggiato al fianco della collina attraverso un sistema di pilotis metallici. Non si risolve in una forma unica ma in un sistema aperto e dinamico, facile da ampliare, con due braccia principali che si collegano ai percorsi pubblici dell’intorno.

Anche i materiali e i colori poco hanno a che fare con l’architettura locale. Giancarlo Mazzanti, noto architetto di origini italiane, pare guardare con ottimismo al futuro, reinterpretando forme e concetti dell’architettura europea e giapponese degli anni sessanta, dagli Archigram ai Metabolisti.

La scuola, nonostante le apparenze, s’inserisce bene nel sistema dei percorsi, degli spazi verdi e degli impianti sportivi dell’area, una zona periurbana fra la strada principale per Medellín e il centro.

Colonna vertebrale della scuola è un boulevard coperto, protetto dal sole e dalla pioggia: mossa intelligente che sfida il clima piovoso e caldo di Marinilla. Il percorso coperto ha uno sbocco nella parte alta, verso la barocca chiesa bianca, e uno che traguarda la piscina in basso. La parte centrale del percorso si allarga a creare una piccola piazza coperta che dà l’accesso alle aule e si apre sia verso la collina posteriore attraverso un asse trasversale caratterizzato da un piccolo ponte che conduce alla palestra esistente, sia verso una finestra-mirador per osservare le case vicine da un punto di vista privilegiato.

Anche lo spazio al di sotto dell’edificio presenta caratteristiche interessanti per la relazione molteplice con il sistema dei pilastri metallici e con l’intorno. Purtroppo, attualmente esso è inutilizzato: si spera possa rapidamente trovare un ruolo attivo per generare una nuova piccola e protetta centralità urbana.

La pelle della scuola è triplice per meglio proteggere gli spazi interni e per servire da supporto alla crescita dei rampicanti. Quella a contatto con l’esterno è una rete metallica di alluminio di colore grigio e leggermente lucida che genera un gioco di interessanti riflessi. Quella delle aule è doppia: rossa fuori e bianca dentro. Il policarbonato rosso possiede un microsistema sinusoidale che trasmette inedite sensazioni luminose e permette di realizzare le curve delle aule-capsule in maniera semplice ed economica. La pelle interna si stacca dal pavimento di venti centimetri -offrendo un interessante effetto di sospensione- e non lambisce la copertura in policarbonato semitrasparente dei corridoi. Le aule sono semplici, bianche, rivestite internamente con pannelli in cartongesso.

La percezione del paesaggio dai corridoi interni -che si possono considerare una reinterpretazione delle tipiche case della tradizione coloniale dei campesinos– si fa plurima, per un insieme di “viste pixelate” derivate dalla sovrapposizione delle immagini con la rete metallica: quando ci avviciniamo alla pelle il paesaggio si apre; se ci allontaniamo tende a sparire. Siamo immersi in uno spazio inedito, concettualmente simile agli esperimenti percettivi di figure come Olafur Eliasson o Jean Nouvel.

In corrispondenza del perimetro, scrive Mazzanti, “si piantumerà un sistema  di rampicanti che con il passare dei mesi aggiungerà vitalità e colore al progetto”, con la speranza che gli utenti interagiscano con gli elementi naturali: il verde potrebbe modificare la percezione dell’edificio, eliminando la sensazione attuale di descontestualizzazione e ponendolo in stretta relazione con il sistema naturale adiacente.

 

Scuola Emberá a Vigia del Fuerte (2015)

Progetto: Plan B arquitectos

Vigia del Fuerte, nella regione di Antioquia, può essere raggiunto solo in aereo o in elicottero da Medellín, o navigando il fiume Atrato. La sua popolazione è una mescolanza di afro-discendenti, meticci e indigeni Emberà, che vivono in diversi agglomerati lontani dal centro urbano situato sulla riva del fiume. Le condizioni sociali e ambientali sono complesse: una volta l’anno, durante la stagione delle piogge, le acque del fiume inondano per diversi mesi i terreni: gli edifici esistenti sono quindi sollevati su palafitte e comunicanti tra loro con passaggi pedonali rialzati, come a Venezia con l’acqua alta. Durante le piogge intense le strade vengono completamente sommerse e le comunicazioni sono Possibili solo tramite imbarcazioni.

L’isolamento e la violenza che fino a poco tempo fa hanno dominato le campagne, hanno sconvolto il normale svolgimento della vita delle comunità. Il nuovo istituto è nato quindi con l’intento di rispondere alle necessità delle comunità indigene: accoglierle per brevi periodi affinché ricevano istruzione e alloggio senza che abbandonino i loro villaggi in modo permanente.

L’edificio, che si trova nella parte settentrionale del paese, quasi a contatto con la foresta, all’interno di una griglia urbana ortogonale, si sviluppa su un unico livello e si articola grazie alle passerelle di comunicazione. I temi principali del progetto sono il basso costo, la ripetizione modulare e la prefabbricazione, che ha ridotto notevolmente i tempi di costruzione.

Tre moduli principali definiscono la pianta come la sezione. Il modulo centrale è una “grande strada coperta” che può essere attraversata o usata a seconda delle esigenze educative e culturali. I due moduli laterali ospitano le aule, i dormitori e le zone di servizio. La copertura si ripete uguale nei tre moduli a reinterpretare i tetti a due falde delle vicine case lignee: rubando le parole del maestro colombiano Simón Vélez, è un “sombrero” che protegge delle pioggie torrenziali e dal sole cocente: la struttura è metallica, con rivestimento in elementi plastici traslucidi e opachi.

I materiali sono stati scelti affinché siano resistenti, economici e si integrino bene con il clima e il contesto. Come affermano i progettisti, “si è evitato di utilizzare legno dei boschi vicini, perché specie in estinzione e si è preferito l’uso di legname immunizzato” trasportato da lontano ed utilizzato per la realizzazione dell’involucro, con elementi permeabili disposti in verticale -al posto dei vetri- che consentono il libero fluire della brezza all’interno degli spazi, attenuando così il surriscaldamento.

Autore

  • Luca Bullaro

    Nato a Palermo, dove si laurea in Architettura presso la locale Università degli studi, conseguendo poi il dottorato di Ricerca in Progettazione architettonica, in cotutela con la UPC di Barcellona, oltre al master “Arquitectura: Critica y Proyecto” presso la ETSAB di Barcellona. È docente presso l'Universidad Nacional de Colombia a Medellín. Vince numerosi concorsi e premi in Italia e all’estero, fra i quali il concorso internazionale “Misterbianco Città Possibile”, il Premio europeo di architettura sacra della Fondazione Frate Sole, il concorso internazionale “Boa Vision” per la riconfigurazione di piazza Papireto a Palermo, il "Premio Quadranti - Vaccarini", la menzione d'onore "Spazi ed infrastrutture pubbliche" come finalista della Medaglia d'oro all'architettura italiana della Triennale di Milano, il concorso per la realizzazione della "Plaza Fundadores" della UPB di Medellín, Colombia. Ha esposto a Ferrara (“Premio Biagio Rossetti", Museo dell’Architettura, 2003), a Roma e Barcellona ("NIB-ICAR 2004, Esposizione itinerante dei progettisti italiani Under 36"), a Catania e Chicago ("Sicilia Olanda", 2007), a Palermo ("SiciliArchitettura", 2006; "Nuove generazioni di architetti in Sicilia", luglio 2009; "Sicilia Olanda II", gennaio 2010), alla Triennale di Milano (Medaglia d’oro all’architettura italiana", maggio 2009); nell’ambito della Design week di Istanbul (giugno 2009) e alla "VI Bienal Europea de Paisaje" di Barcellona (settembre 2010). Ha presentato i suoi progetti a Catania e Roma, Alicante e Barcellona, Manizales, Cali e Bucaramanga, Santiago del Cile e Valparaiso, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Città del Messico e L'Avana.

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Last modified: 6 Ottobre 2017