Mentre prosegue la mostra al MAXXI di Roma, riceviamo e pubblichiamo un tributo di un allievo e collaboratore di Yona Friedman, in merito al suo linguaggio spaziale
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Nel 1961, Giuseppe Ungaretti raccontava, in una sua celebre intervista, il limite che il linguaggio e le parole hanno in tutte le loro forme, nel farsi interpreti della nostra realtà. Soprattutto non possiamo pensare di raccontare il nostro mondo usando strutture che abbiano il peso di muri e definizioni di principio, ma dovremmo sempre usare finestre aperte a possibili nuove interpretazioni, come accenni a nuove forme del nostro essere. Le parole e il linguaggio lasceranno difatti sempre nascosto un intero universo che mai potrà essere svelato. Questo perché, come Ungaretti afferma: «La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai lo avvicina». Spesso invece ci si trova di fronte a operazioni che cadono nel recinto abbagliante del fuoco di un presunto sempre nuovo Prometeo, nell’arrogante convinzione che questi, col suo “segno divino”, abbia il diritto di reinventare il mondo, un mondo ignorante e incapace di gestirsi da solo.
Son poche le architetture e gli architetti che hanno la forza ed il carattere di non cadere in questo equivoco: Yona Friedman è uno di questi. Personalmente ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con Friedman [al quale il MAXXI di Roma tributa un omaggio con una mostra aperta fino al 29 ottobre; n.d.r.], come allievo e collaboratore alla realizzazione di alcune sue opere e mostre, seguendo e studiando per diversi anni il suo linguaggio.
Pochi anni fa, dopo aver realizzato una delle sue strutture mobili con la tecnica dello Space Chain per la collezionista Collete Tornier a Grenoble, Friedman stesso mi chiese: «Madame Collete utilizzerà la struttura? Ultillizzerà il museo? O è interessata a lasciare vuota la struttura come fosse solo un’installazione?»
Un errore che molti fanno è quello di considerare le sue opere, che ultimamente vediamo diffuse in varie città del mondo, unicamente come installazioni artistiche, senza pensare che siamo di fronte ad un diverso linguaggio per fare e pensare l’architettura.
Le “parole” che usa Friedman nel suo linguaggio spaziale sono composte da elementi evanescenti, capaci di modificarsi continuamente, costruendo un’architettura priva di un preciso punto d’accesso o di uscita, dove il pubblico è il principale artefice della sua configurazione spaziale: un’architettura democratica “with people, by people, for people”, riprendendo il titolo di un suo libro.
Il suo linguaggio ci apre così ad una visione del mondo verso prospettive libere da schemi precostituiti o progetti normativi. Nei suoi lavori non abbiamo una realtà costituita da algidi oggetti chiusi, come fossero delle “definizioni di principio” ma, al contrario, egli preferisce tracciare delle linee sottili che ci indicano una direzione possibile, lasciando libera la strada all’imprevedibile. Ciò che crea è il programma di un’opera perennemente aperta, che affonda le proprie radici nell’umana coscienza e nell’universo che questa custodisce. Se “la poesia è poesia, quando porta in sé un segreto”, come diceva Ungaretti nell’intervista citata, il segreto che racchiude Friedman nei suoi lavori è che l’architettura è un’arte che non crea oggetti, bensì è il linguaggio di un processo dove la forma è un’inaspettata sorpresa. Noi non la conosciamo a priori, è una realtà che scopriremo di volta in volta col tempo. Nulla è definito. Ciò che viviamo con Friedman è il mondo segreto di una fenomenologia dell’anima che crea un imprevedibile linguaggio significante, da usare come strumento collettivo politico per il nostro presente e futuro vivere insieme.
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MAXXI , mostre
Last modified: 20 Settembre 2017