Un fenomeno in espansione che la comunità clericale stenta a gestire. E, mentre in Italia la CEI promuove il censimento degli edifici di culto delle diocesi, rimane irrisolta la partita sui beni degli ordini religiosi…
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Il numero delle chiese è in progressiva espansione. Da una ricognizione presso gli uffici CEI (giugno 2017), le chiese per le quali sia oggi avviato un processo di nuova edificazione risultano in Italia ben 182. A queste occorre aggiungere le iniziative di alcune diocesi che riescono ad edificare con fondi propri, senza accedere ai finanziamenti dell’Ufficio Nazionale dell’Edilizia di Culto. Oltre alle chiese per le quali si stanno avviando processi di nuova edificazione in Italia, si amplifica la preoccupazione per il numero degli edifici di culto dismessi, spesso collocati in contesti di decadimento abitativo. Anche rispetto a questo tema, l’ultimo lustro non è passato senza iniziative di sensibilizzazione e di crescente consapevolezza. A interessare l’Europa non è il tema delle nuove chiese quanto piuttosto di quelle eccedenti che, se la Chiesa tende a dismettere, le Soprintendenze e la diffusa “religione della memoria” tendono a vincolare a imperituro ricordo. Si tratta di una questione sulla quale già la precedente nostra inchiesta aveva accennato, rispetto al quale, oggi, possiamo contare iniziative significative che si sono susseguite rapidamente in tutt’Europa. Torino ha inaugurato la serie con un simposio nel 2014 su “Patrimonio Architettonico Religioso, Nuove Funzioni e Processi di Trasformazione” che ha visto recentemente (2017) la pubblicazione di un omonimo volume con contributi significativi per comprendere la dimensione, l’evoluzione e la segmentazione proprietaria delle costellazioni di chiese che punteggiano il nostro territorio nazionale. Nel gennaio 2016, una conferenza a Bonn promossa dal professor Albert Gerhards (“Der Sakrale Ort Im Wandel”) metteva a confronto la situazione tedesca con quella italiana, poi al centro del convegno “Il futuro degli edifici di culto” (Bologna, ottobre 2016) i cui atti sono in corso di pubblicazione su “In_Bo”, rivista del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna. Ultimo in ordine cronologico il convegno organizzato dall’Ecole Nationale Superieure d’Architecture de Lyon, ancora su “L’Avenir des Eglises”, a mostrare un interesse convergente in tutt’Europa non tanto sulla costruzione di nuove chiese, quanto sulla loro dismissione e inserimento in una tipologia specifica del “Cultural Heritage”, al quale s’indirizza in Europa l’azione politica del “Future for Religious Heritage” e in Inghilterra quella sociale e imprenditoriale del “The Churches Conservation Trust”, associazione che gestisce oltre 340 edifici di culto, con 44 dipendenti e oltre 2.000 volontari, per un fatturato annuo di oltre 6 milioni di sterline (2015) a coprire le spese di manutenzione, i restauri e la piccola comunità dei dipendenti.
A scala europea i processi di dismissione superano di gran lunga quelli di nuova costruzione, individuando un patrimonio ampio e significativo assai vasto e in condizioni di emergenza. Tra fondazione e “conversione” di un edificio di culto, il trait d’union sembra dunque essere quello del coinvolgimento sociale: le chiese si dimostrano un tipo edilizio che per storia, tradizione e affezione popolare presuppone e favorisce relazionalità tanto nel suo sorgere quanto soprattutto nel suo “divenire”.
L’inerzia in questo processo la inducono in Italia soprattutto le comunità dei gestori che, proprietarie o meno degli edifici, sono costituite a differenza degli altri stati d’Europa in larghissima parte dal clero. Fa il resto l’estrema parcellizzazione del territorio italiano, frammentato in un mosaico di ben 225 diocesi, tante delle quali così modeste (sia in termini d’economia che di territorio) che solo in un quadro di reciproche collaborazioni e con il coinvolgimento di istituzioni e attori territoriali potranno governare la complessità tanto dei processi di costruzione, quanto quelli di dismissione.
Mentre insomma il quadro sociale preme per una valorizzazione a difesa dei beni di culto dismessi, è la comunità clericale (coincidente ad oggi con la comunità dei gestori) a mostrarsi incapace o indifferente nel gestire processi complessi di riuso, anche quando questi appaiono un’eccezionale opportunità per intrecciare rapporti con le istituzioni laiche o per modulare a scala regionale le diverse forme della pastorale sociale. In questo quadro, fondamentale allora il Censimento degli Edifici di Culto delle Diocesi Italiane: un progetto che gli uffici per i Beni culturali della CEI hanno avviato allo scopo di avere almeno una fotografia aggiornata e on-line del posseduto di ciascuna diocesi, per una maglia georeferenziata di tutti gli edifici di culto, in modo da evitare duplicazioni e poter interagire efficacemente con le banche dati delle altre istituzioni territoriali anche nel caso di eventuali malaugurate emergenze (quali ad esempio i recenti terremoti).
Ma se le diocesi hanno iniziato un processo di schedatura dei loro edifici, l’emergenza riguarda ora i beni degli ordini religiosi perché di questi, ad oggi, non si sa nulla, a danno delle stesse comunità religiose che troppo spesso devono affrontare l’attuale calo numerico nelle proprie forze con l’aggravio della gestione di beni mobili e immobili talvolta imponenti ma esposti ai rischi tipici di situazioni di fragilità e solitudine che gli attuali sistemi di catalogazione non risolvono ma, certamente, contribuiscono ad attenuare.
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Immagine di copertina: a destra Oratorio di Beata Maria Vergine, Finale Emilia, Modena (©Lea Manzi), a sinistra Oratorio di Santa Maria ad Nives, Finale Emilia, Modena (©Lea Manzi)
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Chiese
Last modified: 8 Agosto 2017