Prima delle due puntate dedicate al report di Habitat III, la conferenza mondiale delle Nazioni Unite che indaga sul futuro dell’uomo nelle città
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Quito ha tutte le caratteristiche della città di cui si è discusso ad Habitat III (17-20 ottobre 2016), la conferenza mondiale delle Nazioni Unite che ogni venti anni mette ad un tavolo le più importanti personalità nel campo di urbanistica, sociologia, politica ed economia per analizzare lo stato degli insediamenti umani ed investigare il loro futuro, tanto che sembra quasi scontato che sia stata accolta l’istanza del dicembre 2013 – poi riconfermata dall’Assemblea Generale nell’anno successivo – con la quale la capitale ecuadoriana si candidava ad ospitare la kermesse nel suo Teatro Nazionale.
In ogni continente la città presenta problematiche e contesti molto diversi. Dacca non può somigliare in alcuna maniera a Liverpool, così come Accra a Phoenix o Mosca o San Paolo, ma un dato sembra essere certo ed incontrovertibile: il futuro dell’uomo sta nelle città. La notizia è rimarcata da un dato significativo: per la prima volta nella storia dell’uomo la popolazione urbana ha superato la soglia simbolica del 50% di quella globale e la tendenza di crescita (sarà il 60% nel 2030) ha subito un’accelerazione esponenziale tanto da far diventare questo il tema dominante di Habitat III. Non è più il tentativo di migliorare le condizioni di vita nel territorio extraurbano, tema di Habitat I di Vancouver (1976), come ha affermato senza mezzi termini Joan Clos, ex sindaco di Barcellona e presidente di Habitat, a confronto con Ricky Burdett e Saskia Sassen in uno dei dibattiti più vibranti della kermesse. La pressione sociale, economica e quindi urbanistica che subiranno le città nei prossimi anni è il tema su cui dobbiamo riflettere.
Non è nemmeno più la sostenibilità, come ci eravamo abituati a pensare ormai per inerzia, come se l’edificio a basso consumo fosse la condizione sufficiente – non solo necessaria – per noi architetti, lavando le coscienze di molte speculazioni senza alcun senso urbano e, ahimè, forse una delle principali cause della crescita smisurata del valore immobiliare e di conseguenza della crisi economica che ha pervaso molte delle nazioni qui riunite nella capitale andina.
Le conseguenze di questa condizione sono note a molti, ma alcuni dati spiegano meglio l’urgenza della riflessione e degli interventi che dovranno essere presi a livello politico, economico e sociale affinché la città non si trovi impreparata alla pressione che questa crescita determina.
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La crescita nei paesi in via di sviluppo
Come possiamo immaginare, il 95% dell’espansione urbana si produrrà nei prossimi decenni nei paesi in via di sviluppo. La geografia mondiale dei grandi agglomerati urbani sta rapidamente mutando e nei prossimi anni dovremo abituarci a declassificare alcune delle icone metropolitane globali, che cedono la posizione a città e mondi lontani dalla nostra conoscenza, ma pronti a salire in fretta sulla ribalta internazionale.
Nella classifica delle 27 città più grandi del mondo, 9 sono africane, 2 sopra i 10 milioni di abitanti (Lagos e Kinshasa), mentre altre 3 lo saranno nel 2030, quando quelle di 5 milioni passeranno da 5 a 15.
La popolazione urbana del continente, dal 2000 in soli 15 anni, è passata da 200 milioni a 360 milioni con una proiezione di 600 milioni nel 2050 e fa pensare che la velocità di crescita sia doppia rispetto a quella europea e nordamericana del XIX secolo.
Se aggiungiamo che la triplicazione del reddito pro-capite (2003-2015) è legata allo sfruttamento delle risorse naturali, quindi meno legato alla città, comprendiamo come il grado di allerta per un’aspettativa disattesa, rispetto alle opportunità che la condizione urbana dovrebbe garantire, sia ancora superiore. Inoltre lo sviluppo delle città, come eredità coloniale, avviene prevalentemente sulla costa rendendole più fragili in quanto soggette al rischio delle catastrofi naturali e del cambiamento climatico.
Il 62% della popolazione vive in slums a fronte del 50% della media nei paesi in via di sviluppo e l’indice di povertà, diversamente dal resto del mondo, non è più basso in città rispetto alla campagna così come l’insicurezza alimentare, già precaria, è addirittura superiore nei centri urbani.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la regione medio asiatica ha tuttora una percentuale di popolazione urbana inferiore ad altri continenti (intorno al 35%, media anche della sua nazione più abitata, l’India). L’errore di valutazione è dovuto presumibilmente alla presenza di almeno 5 megacittà oltre i 10 milioni di persone e dalla densità incredibile delle stesse: Dakha è attualmente la metropoli più densa del mondo. Anche in questo caso non è tanto il valore assoluto attuale, quanto piuttosto il trend di crescita a preoccupare gli studiosi, soprattutto per quello che riguarda gli slums: già il 70,8% del “valore urbano” in Bangladesh e con una velocità di crescita addirittura doppia rispetto alle altre aree urbane. Qui l’economia tradizionale non riesce a tenere il passo con il lavoro non specializzato e questo determina un ulteriore ribasso dell’indice di modernizzazione complessivo.
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I Paesi dell’Est
Sebbene non tutti i paesi dell’area Caucasica abbiano avuto la stessa crescita urbana durante il XX secolo (passando dal 70% dell’Ucraina al 41% dell’Uzbekistan a percentuali molto inferiori di paesi come l’Azerbaijan), la drammatica crisi economica seguita alla caduta del Muro di Berlino ha svuotato indistintamente intere città industriali riversando la popolazione nelle sole capitali.
Il nuovo corso del XXI secolo ha determinato sicuramente un cambio di tendenza rispetto a questo fenomeno, ma decisamente attenuato rispetto alla media del globo e soprattutto concentrando la popolazione in pochissime metropoli e nello stesso tempo chiudendo il ciclo di metamorfosi delle città dell’industria in una collezione di ghost cities senza destino.
Intanto la differenza culturale – ancor più che economica – tra le popolazioni urbane e quelle della campagna permane, o forse si divarica ulteriormente. In tutto l’Est europeo e nella Federazione russa le pratiche rigenerative urbane conservano caratteristiche con una forte peculiarità: qui la società oppone alla gentrificazione mitteleuropea una rivendicazione sociale più radicale come effetto o reazione all’oppressione-depressione sovietica (due terzi delle città contemporanee della regione furono fondate in questa epoca). La posizione, a ben vedere, è fortemente critica rispetto alla trasformazione dei distretti creativi di molte città della vicina Europa che da una parte alimentano il fenomeno della riqualificazione, dall’altra sono – a loro volta – alimentate da spinte speculative che reiettano le classi sociali che le abitano, traslando la pressione nelle nuove periferie.
L’industria culturale occupa un settore sempre più rilevante nella economia urbana con spunti interessanti a Seul e Pechino, rispettivamente al 9,4 e 13,4%.
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Il caso della Cina
Sembra cadere anche la resistenza cinese che ha sviluppato nell’ultimo secolo le più importanti politiche di decentramento urbano
al fine di trattenere la popolazione nel suo tradizionale habitat agricolo, seppure con forti controindicazioni rispetto alla componente storica. In fondo stiamo parlando della più popolosa area del pianeta, che ha comunque raddoppiato negli ultimi 5 lustri le sue aree urbanizzate, con molte nuove metropoli e ben 10 megacittà, alcune tra queste con una crescita impressionante, come Guangzhou che in un solo quarto di secolo ha moltiplicato la sua area urbana di 30 volte, decuplicando i suoi abitanti fino alla impressionante quota di 25 milioni. Anche qui la gentrificazione del real estate, come nei paesi europei – ma con numeri di portata radicalmente diversi – ed i programmi d’infrastrutturazione intensiva, rischiano di compromettere l’equilibrio sociale ed il patrimonio culturale.
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Le Americhe
Se il Sudamerica è l’area più urbanizzata del pianeta (80%) da molto tempo, il Nordamerica invece, fortemente caratterizzato dal ruolo dell’automobile, ha sviluppato il più alto grado di abitanti suburbani, più del 50%. Nel XXI secolo la popolazione urbana anche qui ha raggiunto picchi superiori all’80% e il continente ci riserva alcuni dati sorprendenti. Il paese con più immigrazione del mondo è il Canada, che concentra peraltro più del 60% della popolazione non autoctona in sole tre città. Ciò rende centrale in questo settore di mondo il tema delle culture innestate nel tessuto urbano, se è vero che New York – come sappiamo – ha più della metà degli abitanti immigrati di prima e seconda generazione, ma Toronto addirittura il 46% di prima generazione. La città americana ci ha del resto abituati da tempo a componenti di questo tipo, che però non sono mai state in grado di connotare il tessuto urbano in maniera proporzionale al loro valore numerico, forse per il fatto che queste hanno sempre occupato, se non in rare eccezioni, aree suburbane in maniera ciclica, con nuove ondate d’immigrati a sostituire quelle insediate precedentemente.
A dispetto della pressione sociale, che nella città americana assume spesso una consistenza drammatica, uno dei fenomeni più rilevanti della crisi della città è il dislocamento della produzione – prevalentemente automobilistica – e, in conseguenza di ciò, gli impegni di riqualificazione risiedono soprattutto nei programmi d’incentivazione messi in atto per ripensare le città post-industriali, come nei casi più significativi di Detroit, Cleveland e Buffalo. Le strategie rigenerative come il “Brownfield Redevelopment” nel Rust Belt rappresentano, nelle intenzioni come negli esiti, uno dei casi più emblematici d’intervento a larga scala non solo per gli Stati Uniti.
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La situazione europea e le gerarchie urbane
Nel quadro globale, appaiono sminuite o quantomeno ridotte le preoccupazioni attualmente catalizzate intorno alla questione della migrazione, che in termini numerici sembrano svanire nei grandi numeri della crescita urbana: Milano, Madrid e Parigi sono tra le città con il più basso tasso di popolazione nata all’estero. L’attenzione sembra piuttosto rivolta alla pressione politica che rischia di rendere gli effetti del fenomeno decisamente superiori alla sua effettiva portata, motivo per cui cresce l’auspicio di politiche d’intermediazione culturale tese a ridurre l’impatto e governare le nuove energie in entrata nella metropoli europea.
Ciò che rappresenta una delle maggiori incognite è il destino dei centri storici, che per caratteristiche morfologiche appaiono sotto stress da congestione più di altre parti di città. In un Paese come il nostro, dove la heritage percentage rappresenta una buona fetta del corpo urbano, i centri storici sembrano destinati a scenari legati al mercato culturale e turistico ma ancora faticano ad espellere quelle condizioni che li rendono inapplicabili, come appunto la congestione del traffico veicolare e la permanenza di molte delle attività produttive e finanziarie che li hanno caratterizzati nel dopoguerra. Il rischio latente di questo processo, di contro, è quello di snaturare irreversibilmente la complessità urbana banalizzandone i contenuti, anche se al momento i benefici appaiono superiori alle controindicazioni.
Nel vecchio continente potremmo distinguere tre categorie di città, le metropoli da uno a dieci milioni di abitanti, le città da centomila a un milione ed infine i piccoli centri.
Se nelle metropoli il fenomeno rischia di generare, così come è già stato, una forte pressione nelle periferie dove si riversano gli abitanti del centro (ma che potrebbero, mescolandosi, mediare il problema della migrazione), le città intermedie produttive sono anche molto attive culturalmente. I piccoli centri subiscono invece da anni un processo di decremento della popolazione ed il turismo rappresenta al contempo l’ancora di salvataggio – mantenendone in vita le strutture commerciali – ed il suo potenziale rischio, alimentando il fenomeno delle seconde case e quindi sostituendo la popolazione reale con una virtuale, che riempie le città pur non abitandole.
Contemporaneamente cresce l’idea che anche le periferie possano ricadere nel concetto di patrimonio e di conseguenza debbano essere soggette a piani di recupero di alcuni dei loro manufatti.
Grafico di modifica delle posizioni nel ranking delle città più popolate
Il grafico dimostra come la geografia mondiale dei grandi agglomerati urbani stia rapidamente mutando e che nei prossimi anni dovremo abituarci a declassificare alcune delle icone metro- politane globali, che cedono la posizione a città e mondi lontani dalla nostra conoscenza.
In blu sono indicati i paesi dalla 1° alla 50° posizione del ranking HDI-Human Development Index In rosso i paesi dalla 100° posizione e successivi.
Lo HDI-Human Development Index (Indice di Sviluppo Umano) compara lo sviluppo dei vari paesi calcolato tenendo conto dei diversi tassi di aspettativa di vita, istruzione e reddito nazionale lordo procapite. È uno strumento standard per misurare il benessere di un paese.
Elaborazione e grafica: Franco Tagliabue Volontè Dati: 2007 Wall Chart – Department of Economic and Social Affairs – UN
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Grafico della trasformazione della popolazione da rurale a urbana messo in relazione con la crescita della massa urbana
La curva di crescita della popolazione urbana in un intervallo di un secolo è superiore a quello della crescita della massa urbana.
L’effetto dello spostamento della popolazione nelle città è superiore a quello dell’abbandono del territorio e determinerà non solo una crescita della massa urbana, ma anche un deciso aumento della pressione della popolazione, con effetti critici esponenziali sulla densità abitativa.
1. continua…
Bibliografia
Culture Urban Future, 2016, ed. United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, Paris, France
Ekos, 2016, ed. Edicuatorial, Quito, Ecuador
Richard Burdett, Miguel Kanai, La costruzione della città in un’era di trasformazione urbana globale, in Città Architettura e Società, Catalogo della 10. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia
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Last modified: 25 Gennaio 2017
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